Mindanao. LaPresse/Xinhua

Mentre guardavamo dall'altra parte il califfo è arrivato in Asia

Giulia Pompili

L’assedio dei miliziani del gruppo estremista Maute nelle Filippine e l'emergenza di Duterte

Roma. Il presidente filippino Rodrigo Duterte oggi è rientrato a Manila anzitempo. La sua visita di stato in Russia, nel paese di quello che ha definito più volte il suo “eroe”, il presidente Vladimir Putin, era appena iniziata. Ma la geopolitica e il riallineamento delle Filippine su un’asse più vicino a Mosca e a Pechino passa in secondo piano di fronte all’avanzata degli estremisti islamici nel sud del paese: “La sicurezza interna è la priorità del nostro presidente”, ha detto dalla capitare russa il segretario agli Affari esteri filippino, Alan Peter Cayetano. Martedì, mentre era ancora in Russia, Duterte ha proclamato la legge marziale su tutta la vasta isola di Mindanao, la seconda isola delle Filippine per dimensioni, abitata da venti milioni di persone. Poco prima delle dieci di sera i miliziani del gruppo estremista Maute hanno iniziato una guerriglia all’interno della città di Marawi, capoluogo della provincia di Lanao del Sud, nella Regione autonoma nel Mindanao musulmano. Poco dopo, sui canali Telegram dello Stato islamico, a cui il gruppo Maute ha giurato fedeltà, sono iniziate a girare le immagini della città “conquistata” dal Califfato filippino.

    

Non è ancora chiaro come sia iniziato l’assedio dei miliziani, ma è di sicuro stato il risultato di uno scontro con l’esercito che ha fatto almeno cinque soldati morti e una dozzina di feriti. Il portavoce delle Forze armate filippine, Restituto Padilla, ha detto oggi all’Afp che le Forze armate stavano preparando un raid “chirurgico” contro il quartier generale dei Maute. Secondo le informazioni di intelligence, infatti, martedì si sarebbe dovuto tenere un incontro tra il gruppo Maute e Isnilon Hapilon, leader dell’altro gruppo estremista filippino, Abu Sayyaf, uno degli uomini più ricercati d’Asia. Le Forze armate filippine volevano beccare insieme i due gruppi dello Stato islamico, ma evidentemente qualcosa è andato storto.

     

Intorno alle undici il sindaco della città di Marawi, Majul Usman Gandamra, ha postato un messaggio sulla sua pagina Facebook: “Non siamo okay qui. Ci sono palazzi dati alle fiamme nella città e non sentiamo le sirene dei pompieri. E ora l’elettricità è fuori uso e sentiamo ancora degli spari. #PrayforMarawi”. Il vescovo di Marawi, Majul Usman Gandamra, ha detto oggi alla CbcpNews che intorno alle 8 della sera di martedì ha ricevuto una telefonata da un sedicente militante dello Stato islamico che ha chiesto al prelato di intercedere per un cessate il fuoco con le Forze dell’ordine filippine. Il vescovo ha detto di essere stato chiamato dal numero del suo segretario, che in quel momento si trovava nella chiesa di Santa Maria, preso in ostaggio insieme con altre quattordici persone “tra i quali un prete, delle suore e alcuni laici che stavano pregando in chiesa”, ha confermato oggi all’Agenzia Fides il vescovo De la Pena, che ha detto di essersi salvato perché in quel momento era in missione in un villaggio vicino. Secondo alcune fonti locali riportate dai media filippini e confermate dallo stesso vescovo, a sera la chiesa di Santa Maria era stata data alle fiamme. Nel frattempo le Forze armate filippine erano state cacciate dal centro della città e tutt’ora presidiano i confini, in attesa di ordini. Secondo l’intelligence, Isnilon Hapilon si troverebbe ancora a Marawi. Duterte ha detto oggi che se gli islamisti riescono a prendersi la provincia di Lanao del Sud è pronto a istituire la legge marziale in tutte le Filippine. E il presidente ha ragione a preoccuparsi, perché non è la prima volta che gli islamisti, a Mindanao, hanno la meglio sulle Forze armate filippine – soprattutto da quando Duterte ha deciso di eliminare progressivamente la presenza militare americana sull’isola. “La presenza dei militanti del Califfato nelle Filippine è balzata agli onori della cronaca in tutta la sua evidenza quando la bandiera nera dei combattenti è stata issata nel villaggio di Butig, nella provincia di Lanao del Sud”, scrive Paolo Affatato nel capitolo dedicato alle Filippine di un utile libro in uscita oggi, “A Oriente del Califfo” a cura di Emanuele Giordana (Rosenberg e Sellier, 190 pp., 15 euro) che racconta, paese per paese, come il progetto di Abu Bakr al Baghdadi sia arrivato in Asia. “Il simbolico gesto – ma è noto quanto la simbologia e la narrazione cinematografica contino nella propaganda del Daesh – è stato compiuto e subito pubblicizzato da un gruppo estremista denominato Khalifa Islamiyah Mindanao o anche Maute, dal nome dei due fratelli Abdullah e Omar Maute che lo hanno fondato. I jihadisti hanno occupato il vecchio palazzo municipale di Butig, da tempo abbandonato e deserto, proclamando il territorio come minicaliffato di Mindanao”. Le stesse immagini di giubilo sono state diffuse dallo Stato islamico in riferimento alla “conquista” di Marawi. Davao, la capitale de facto dell’isola di Mindanao, si trova a duecentocinquanta chilometri a sud-est da Marawi. E Davao è la città natale dell’attuale presidente Rodrigo Duterte, che è stato sindaco della città dal 1988 al 2016, e dove ora governa la figlia Sara Duterte-Caprio. In pratica lo Stato islamico è pericolosamente vicino alla seconda città più importante delle Filippine. La sindaca Duterte-Caprio ha tenuto una conferenza stampa per spiegare la legge marziale, ovviamente appoggiando le misure particolarmente dure del padre – un gran sostenitore dello “stato d’emergenza” a cui ricorreva il dittatore Ferdinand Marcos. E mentre la situazione nelle Filippine è sempre più in bilico, il Washington Post ha pubblicato alcuni dettagli della conversazione telefonica avvenuta tra il presidente Duterte e Donald Trump il 29 aprile scorso. Trump si sarebbe complimentato con Duterte per via del suo “incredibile lavoro” nella lotta alla droga e avrebbe rivelato la posizione segreta di due sottomarini nucleari americani in acque coreane. Sin dal suo insediamento, gli squadroni della morte di Duterte avrebbero ucciso decine di migliaia di persone tra quelle legate al traffico di stupefacenti o tra semplici utilizzatori.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.