Un soldato dell'Erd a Mosul (foto LaPresse)

Le violenze sui civili dell'esercito iracheno, raccontate da un fotografo

Enrico Cicchetti

Torture, stupri, omicidi. Ali Arkady pubblica sullo Spiegel un reportage sui crimini commessi dai soldati sciiti in lotta contro il Califfato in Iraq

In un reportage pubblicato sulla rivista tedesca di giornalismo investigativo Der Spiegel, Ali Arkady, fotografo e documentarista iracheno, ha riferito che le forze di sicurezza che stanno combattendo contro lo Stato islamico nel paese avrebbero arrestato in modo arbitrario, torturato, stuprato e ucciso alcuni civili “per blandi sospetti di appartenere all’Isis o anche senza nessun sospetto”. Il giornalista, che ha iniziato a collaborare con lo Spiegel nel 2011, è ben informato su che cosa sta accadendo nel suo paese di origine e ha molti contatti e documenti che gli hanno permesso di raccontare in modo approfondito i vari conflitti dell'Iraq, sin dal 2006. La rivista tedesca, che secondo l’Economist è una delle più influenti a livello europeo e ha avuto ruoli chiave nella scoperta di numerosi scandali politici, ha pubblicato – nel numero 21 in edicola questa settimana – il racconto di Arkady.

 

Nel maggio 2016, il giornalista è stato nella città di Toozkhurmat, a sud di Kirkuk, al seguito della Divisione di reazione rapida (Emergency Response Division, Erd) che oggi sta combattendo, insieme ad altre unità, contro lo Stato islamico a Mosul. Il reporter ha seguito una campagna di sgombero forzato ad opera delle milizie sciite. Già a quel tempo si diceva che fino a un migliaio di civili sunniti fossero scomparsi nella sola area di Toozkhurmat. Persone fuggite da altre province irachene hanno raccontato di rapimenti, ma sinora non c’erano prove oltre alle parole dei testimoni. Ali Arkady ha ora svelato l'identità di alcuni soldati dell’Erd e della polizia irachena che avrebbero commesso crimini, fotografati e filmati dal giornalista. Le sue descrizioni sono in contrasto con la narrazione comune della campagna per la liberazione di Mosul, che vede le unità dell'esercito iracheno come liberatori: il titolo stesso del reportage è “Non eroi ma mostri”. La stampa straniera, del resto, non ha mai avuto la possibilità di seguire per mesi e così da vicino le truppe in operazioni tanto sensibili, né di avere accesso a determinate zone di guerra. La Divisione di reazione rapida poi, è un'unità militare del ministero dell’Interno iracheno che prima di raggiungere Mosul ha dovuto combattere contro i miliziani dello Stato islamico ed evacuare civili non solo dalle aree urbane, ma anche dai villaggi dei dintorni, spesso di notte, quando non erano presenti giornalisti. Prima di pubblicare il suo reportage Arkady ha deciso di far allontanare la sua famiglia dall’Iraq e di lasciare lui stesso il paese.

 

 

Quella che segue è una traduzione di alcuni passi del reportage di Arkadi.

 

“Nell’ottobre dello scorso anno ho iniziato il mio progetto seguendo due membri dell’Erd per documentare la lotta contro lo Stato islamico. Questo almeno era il piano”.

 

“In autunno, quando sono iniziate le operazioni per la liberazione di Mosul, mi sono unito al capitano Omar Nazar, un sunnita, e al sergente Haider Ali, sciita. Era il classico cliché degli iracheni schierati su posizioni opposte ma che sono amici, camerati sul campo di battaglia. Li ho accompagnati e filmati per giorni. Erano i protagonisti del mio documentario che voleva mostrare come sunniti e sciiti siano entrambi impegnati insieme nella lotta allo Stato islamico”.

 

“All’inizio la Emergency Response Division di Omar e Haider era una forza piuttosto ridotta. Ma dall’estate del 2014, quando l’Iraq è entrato in guerra contro il Califfato, si è ingrandita molto e in modo rapido. Era divisa in tre gruppi: gli investigatori, i cecchini e i combattenti. Il capitano Omar Nazar comandava un drappello di soldati nel quale c’era il sergente Haider Ali. Gli uomini guidavano dei raid notturni. Erano stati addestrati in particolare dagli americani. Il comandante della Erd, il colonnello Thamer Muhammad Ismail, mi diede il permesso di accompagnare le forze in missione e ogni vittoria era un’iniezione di fiducia per i miei ‘protagonisti’”.

 

“Il 22 ottobre, gli uomini di Omar tornarono con due giovani prigionieri alla base. Li ho fotografati senza sapere cosa sarebbe successo loro. I soldati mi dissero, dopo averli torturato per tre giorni, che erano membri dell’Isis. Una settimana dopo, furono uccisi.

 

Da quel momento il mio progetto ha iniziato a cambiare. I miei ‘eroi’ fecero qualcosa che non credevo possibile. All’inizio mi permettevano di guardare e in seguito si lasciarono filmare”.

  

 

Dall’11 novembre, scrive Arkadi, le cose hanno continuato a peggiorare: nel reportage racconta di torture, stupri e omicidi di persone anche al minimo sospetto di appartenere allo Stato islamico.

“C’era addirittura una sorta di competizione tra polizia federale ed Erd: quando i poliziotti dicevano di avere trovato in una casa qualche donna di bell’aspetto e di averla stuprata, gli uomini dell’Erd ritornavano per violentarla di nuovo. La lotta allo Stato islamico era sempre meno importante per loro. Se questi soldati avevano una strategia, era quella di terrorizzare a morte tutti i sunniti della zona in modo da farli fuggire e cambiare la demografia del nord dell’Iraq”.

 

 

Arkadi racconta delle torture subite da due prigionieri, padre e figlio di sedici anni, legati e appesi al soffitto con le braccia all’indietro. Il reporter li ha fotografati in numerosi scatti, completamente libero di muoversi nella stanza dove i soldati li stavano torturando. Il fotografo racconta poi di due fratelli, Laith e Ahmed, catturati dalle forze d’élite della Golden Division ma rilasciati per insufficienza di prove. Arkadi scrive di essere stato testimone delle torture subite dai due, una volta riacciuffati dai soldati dell’Erd:

“Ero sorpreso che mi lasciassero filmare ogni cosa. Sono rimasto lì per un’ora. Il mattino seguente, un soldato mi ha detto che erano stati uccisi e mi ha mostrato un video dei loro corpi e me l’ha addirittura mandato via WhatsApp”.

 

“Hanno visto tutti che filmavo i loro abusi, per ore. E poi mi hanno mandato i video degli omicidi che gli chiedevo. E, come nel caso dei due fratelli, mi hanno anche detto che potevo usarli nel mio documentario. Avevano perso ogni cognizione di cosa è giusto e cosa sbagliato".

 

 

Ora Arkadi vive in un altro paese, non sappiamo quale. “È il prezzo del mio lavoro – pubblicare ciò di cui sono stato testimone. È il mio fardello. E lo porto con me”.

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