Bashar el Assad (foto LaPresse)

Così la guerra in Siria “ingoia” sempre di più Trump

Daniele Raineri

Jet americani colpiscono assadisti per proteggere una base speciale. È un avvertimento: non trasgredite i limiti che abbiamo fissato

Roma. La guerra in Siria coinvolge sempre di più l’Amministrazione Trump, suo malgrado, come già aveva fatto con l’Amministrazione Obama. Ieri aerei americani hanno bombardato un convoglio assadista che si stava avvicinando al valico di al Tanaf, che è dove l’autostrada che corre da Damasco a Baghdad interseca il confine fra Siria e Iraq. È la seconda volta in due mesi che accade, dopo il bombardamento con i missili Tomahawk che fu ordinato la notte del 7 aprile come risposta al massacro chimico di Idlib. E anche questa volta è un segnale di Washington per gli assadisti: non trasgredite i limiti che abbiamo fissato in Siria.

 

Il valico di al Tanaf è da più di un anno sotto il controllo dei ribelli, ma è necessario essere precisi: non sono i ribelli della zona di Idlib, divisi e mescolati con le fazioni estremiste, si tratta invece di un piccolo gruppo creato, addestrato e finanziato per strappare allo Stato islamico la zona desertica al confine fra Giordania, Iraq e Siria, e per tagliare il cosiddetto “corridoio dell’Eufrate”, che è la rotta preferita dall’Isis per spostarsi tra Raqqa e l’Iraq centrale. Quella zona è considerata il cuore dello Stato islamico, ora che Raqqa è assediata e la battaglia per Mosul è quasi – quasi – vinta. In quel deserto (che non sarebbe interessante se non fosse per il viavai dell’Isis) la guerra tra assadisti e opposizione non c’è mai stata e per questo le forze speciali americane e inglesi hanno creato una zona cuscinetto da cui tengono sotto pressione i terroristi.. L’anno scorso i ribelli si facevano chiamare Nuovo esercito siriano, quest’anno sono diventati i Maghawir al Thawra, i commandos della rivoluzione – senza sparare un colpo in direzione dei soldati di Assad.

 

Il fatto che quella di al Tanaf sia una zona dimenticata (lontana dalle aree curde, che offrono più sicurezza) che potrebbe fare da set per un film western aiuta la collaborazione discreta con i militari inglesi e americani. La presenza dei ribelli e degli alleati è però molto sgradita. Il 15 aprile lo Stato islamico ha dato l’assalto alla base – senza successo – e il 16 giugno 2016 gli aerei russi l’hanno bombardata, ventiquattr’ore dopo che i commando inglesi del Sas (circa una ventina) l’avevano lasciata. Era un messaggio chiaro.

 

Le forze speciali americane sono lì con un mandato chiaro, devono proteggersi se sono attaccate. Il convoglio assadista di 27 veicoli, carri armati inclusi, non era dell’esercito regolare, ma di una milizia sciita irachena che si chiama il Battaglione dell’Imam Ali e che dall’altra parte del confine – in Iraq – ha partecipato alla guerra contro lo Stato islamico anche con la copertura degli aerei americani. Tale è la situazione in Siria e Iraq oggi, a volte si condivide lo stesso fronte e a volte (più rare) si è nemici. Il raid aereo di ieri può essere letto non come una dichiarazione di guerra totale, ma come un ammonimento: questa è una zona di cosiddetta deconfliction, ovvero dove americani e assadisti dovrebbero ignorarsi, va rispettata. Prima di colpire, gli americani hanno avvisato il convoglio, ma non si è fermato. I russi erano stati avvertiti in anticipo, sempre per rispettare il protocollo di questa spartizione non meglio definita della Siria. Anzi, secondo la versione della Coalizione anche i russi hanno tentato di convincere i mezzi assadisti a fare marcia indietro, ma senza successo.

 

È possibile che il tentativo di marciare con una colonna armata su al Tanaf sia un’idea degli iraniani, che vedono malissimo la zona cuscinetto creata di fatto dagli americani. Ieri mattina l’agenzia iraniana Fars annunciava con toni trionfali che tremila combattenti di Hezbollah, il gruppo libanese alleato di Teheran e di Assad, erano pronti per conquistare la zona. La crisi è avvenuta mentre il presidente americano Trump arrivava in Arabia Saudita, che è l’acerrima nemica della presenza iraniana in Siria, per una serie molto ricca di incontri e di decisioni.

  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)