Foto LaPresse

Trump subisce il fascino dei dittatori di tutto il mondo (con un'eccezione)

Daniele Raineri

C’è da chiedersi il perché di questa fascinazione per i nemici naturali del modello americano. Tre ragioni

Che Trump avesse un debole per l’uomo forte si era già capito bene in campagna elettorale e non c’era bisogno di altre conferme. E invece nelle ultime settimane è stato un crescendo: ha ricevuto l’egiziano Abdel Fattah al Sisi alla Casa Bianca – “C’è una buona intesa fra noi” – è stato uno dei primi a congratularsi con il turco Recep Tayyip Erdogan dopo la vittoria risicata al referendum, ha invitato il presidente filippino Rodrigo Duterte a Washington – quello di “Obama sei un figlio di puttana” e “il Papa è un figlio di puttana” – poi ha invitato anche il leader della giunta thailandese Prayuth Chan-ocha – un altro che mena duro, per Trump “le nostre relazioni saranno più strette che mai” – e infine ha detto che sarebbe onorato di incontrare di persona il leader della Corea del nord, Kim Jong-un, che il resto del mondo considera un pariah pericoloso miracolato da un programma militare atomico.

 

Trump è fan anche di un uomo forte atipico come il presidente cinese Xi Jinping, che è un modello morbido della stessa specie – il più sommesso ma anche il più potente, a essere precisi. “Mi piace e penso di piacergli un sacco”, dice Trump. Wilbur Ross, segretario del Commercio, due giorni fa ha raccontato che durante la cena di stato con il cinese nel resort di Mar-a-Lago, poco prima che fosse servito il dessert (“la torta al cioccolato più buona che voi possiate mai assaggiare”), il presidente gli ha annunciato il raid missilistico contro la Siria “come fosse un pezzo del programma di intrattenimento per il dopocena. E quell’intrattenimento non gli è costato nulla”. Il New York Times, covo di pavidi liberal, si diverte a registrare lo sgomento dello staff di Trump all’idea che questi bilaterali forti – Duterte e Kim Jong-un – si debbano un giorno fare davvero. E sopra tutto questo si vede la sagoma dell’uomo forte globale, il russo Vladimir Putin, con cui Trump si è appena sentito al telefono ma che da un po’ di tempo è assente dalla conversazione presidenziale americana, un po’ anche per non puntare di nuovo l’attenzione su indagini molto delicate in corso. Fine carrellata: non c’è dubbio che Trump domenica prossima tiferà per l’uomo forte di Francia (Marine).

 

C’è da chiedersi il perché di questa fascinazione per i nemici naturali del modello americano. Un motivo potrebbe essere che la cattiveria per il presidente è una qualità deplorabile che però si associa in via automatica ad altre più desiderabili, come la speditezza e l’efficienza nell’uccidere terroristi e quindi è inutile stare a guardare il capello. “Non avremmo dovuto destabilizzare Saddam Hussein, vero? – disse a un comizio – Era un tipo molto molto cattivo, ma sapete cosa sapeva fare bene? Uccideva terroristi. Oh, ci sapeva fare. Non gli leggeva i diritti. Non ci parlava. Erano terroristi: fine”. Un altro motivo è che Trump ama coltivare l’immagine di executive di polso e questo decisionismo in stile aziendale si può esplicare in tutta la sua potenza soltanto se tratti con un despota che si fa ubbidire dai suoi. Juncker, il Congresso e le democrazie in genere non danno la stessa soddisfazione. E in allegato c’è il fascino della pericolosità: se puoi mangiare torta al cioccolato con chiunque nel mondo, perché non farlo con i cattivi soggetti che accendono l’interesse del pubblico? Da non sottovalutare è pure l’effetto confronto: tanto mi criticate, ma potrei essere come questo qui accanto a me. Unica eccezione alla regola, finora, per il siriano Assad. Trump lo ha definito “un animale”: forse perché con il suo intuito da uomo di spettacolo ha colto la verità, cioè che Assad non è più l’uomo al comando, ma solo lo schermo che copre gli ordini di russi e iraniani. Sad.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)