Mike Pence con Joko Widodo (foto LaPresse)

Pop islam

Giulia Pompili

Così la laicissima Indonesia ha regalato il potere (vincente) del populismo all’islam politico

Roma. Il vicepresidente americano, Mike Pence, è arrivato in Indonesia per la terza tappa del suo viaggio asiatico. Ieri ha incontrato il presidente Joko Widodo, in carica dal 2014, e si tratta della visita americana su territorio indonesiano di più alto livello dopo quella di Barack e Michelle Obama del 2010. Pence, nel paese con la più alta popolazione di musulmani al mondo, ha detto a Jokowi che il tradizionale islam moderato indonesiano “è fonte d’ispirazione per il mondo, e mi complimento con voi. Nella vostra nazione, come nella nostra, la religione unisce, non divide”. In Indonesia la pluralità religiosa è sancita dalla Costituzione, e nonostante alcune minoranze più integraliste, l’islam non ha mai avuto un ruolo dominante nella società indonesiana, soprattutto nelle nuove generazioni, che riconoscono i valori tradizionali e li interiorizzano come possono.

 

Il fatto è che Pence arriva a Giacarta il giorno dopo la sconfitta elettorale dell’ormai ex governatore Basuki Tjahaja Purnama, meglio conosciuto come Ahok, cristiano e di origini cinesi che nel 2014 aveva sostituito proprio Jokowi durante la campagna elettorale e dopo l’elezione a presidente. Ahok ha subìto una durissima campagna animata dai movimenti islamisti, e alla fine ha perso la sua battaglia elettorale. A nulla sono serviti i moniti del presidente Jokowi a non “confondere la religione con la politica”, gli appelli a mettere da parte i pregiudizi sulle sue origini e perfino l’invito a “votare per la nostra dignità”, come recitava un lungo editoriale del Jakarta Post qualche giorno fa. Alla fine Ahok ha perso contro il candidato sostenuto dai partiti islamici, Anies Baswedan-Sandiaga Uno, dopo l’accusa di blasfemia (per aver detto, appunto, che il Corano non dice di quale religione deve essere un politico) e oceaniche manifestazioni contro di lui organizzate dai vari partiti islamici. Come notava il Jakarta Post prima del voto di mercoledì, “la campagna elettorale, sin dal primo turno, è stata tra le più sporche, polarizzanti e divisive che la nazione abbia mai visto. Uno degli aspetti più problematici di questa elezione è l’uso della religione, e in un certo senso della razza, nella retorica della campagna, non necessariamente dai candidati ma più che altro dai sostenitori, spesso con l’aiuto dei social media”. In pratica a Giacarta ha vinto il populismo, nel senso più esteso della parola.

 

Da qualche anno i rappresentanti dell’islam politico, specie nelle nazioni del sud-est asiatico, hanno capito che l’indignazione collettiva funziona come cassa di risonanza di alcune istanze, fossero anche religiose. Lo scorso anno Vedi R. Hadiz, docente di Studi asiatici all’Università di Melbourne, ha pubblicato con la Cambridge University Press il saggio “Islamic Populism in Indonesia and the Middle East”, nel quale spiegava la trasformazione che sta subendo la politica indonesiana attraverso le differenze con paesi come la Turchia e l’Egitto. Nel paese asiatico non esiste una borghesia islamica, e la stessa religione è stata importata recentemente, durante il periodo coloniale olandese, spiega Vedi nel libro. Poi ci fu il periodo del Nuovo Ordine (anni Sessanta e Settanta), quando il presidente Suharto decise di far confluire i partiti islamici all’interno di un unico partito da lui sostenuto. Con la sua caduta, anche il sistema è crollato, e così la laicità dello stato indonesiano ha avuto successo maggiore: “La politica è una competizione nel controllo di risorse e istituzioni dominanti. L’AKP in Turchia è riuscito ad avere il controllo, così pure la Fratellanza musulmana in Egitto, prima di essere rovesciata. Ma in Indonesia, i gruppi islamici non riescono a controllare lo stato e la società civile”, ha detto Vedi in un’intervista al sito Magdalene. La conseguenza è che questo sfilacciamento dei vari gruppi – dovuto anche alla peculiare geografia dell’Indonesia – ha dato un’opportunità alle persone che non disponevano di risorse. E questo fornisce argomenti ai gruppi di dimostrare che la democrazia è difettosa. Adesso c’è una specie di competizione tra i politici a dire ‘io sono più musulmano di te’. Questo fa diventare mainstream i valori conservatori” e quelli dell’islam tradizionale: adesso è la politica che si “adatta” alla situazione. Ma non durerà a lungo, secondo Vedi: una coalizione di forze politiche islamiche, in Indonesia, non è destinata a durare.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.