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Il referendum in Turchia rompe la promessa della stabilità

Enrico Cicchetti

Erdogan vince di un pelo il referendum che gli dà pieni poteri, ma sono già iniziate le polemiche e le proteste

Istanbul. Durante la campagna referendaria in Turchia, alcuni cartelloni a favore del Sì alla riforma voluta dal presidente Recep Tayyip Erdogan recitavano: “Per porre fine allo stato di emergenza”. La Turchia è un paese stremato dalla tensione, da due guerre antiterrorismo combattute nel suo territorio o ai suoi confini, dai problemi legati all’accoglienza della più grande comunità di profughi siriani al mondo, dal conflitto civile con i curdi nel sud-est del paese, dalle divisioni partitiche e dalla repressione che ha fatto seguito al tentato golpe dello scorso luglio. Da allora, il paese è in stato di emergenza, le libertà politiche e civili si sono ristrette progressivamente, l’economia risente pesantemente dello stato di tensione. La vittoria di Erdogan al referendum che offre al presidente la possibilità di rimanere in carica fino al 2029 con pieni poteri era vista ormai come un modo per riportare tranquillità in un paese perennemente sull’orlo della rottura. Ma al referendum di domenica il trionfo di Erdogan si è trasformato in una non vittoria, o quanto meno in una vittoria striminzita: appena il 51,4 per cento dei turchi ha votato Sì, contro aspettative infinitamente più alte, restituendo l’immagine di un paese sempre più spaccato. E così la promessa di stabilità portata da Erdogan sembra già infranta. Ieri mattina, poche ore dopo aver dichiarato vittoria, il governo ha rinnovato lo stato di emergenza. Sarebbe dovuto finire questa settimana ma durerà almeno altri tre mesi.

Il Chp, partito kemalista laico e principale forza dell'opposizione, ha chiesto il riconteggio dei voti. Gli osservatori terzi hanno detto che il voto non è stato all'altezza degli standard internazionali. Ma Erdogan ha già messo in guardia chiunque osi sovvertire la volontà del 51,4 per cento della popolazione

“Ascolta. Lo facevamo anche noi in Siria, nei primi tempi delle proteste contro Assad”, dice al Foglio Mohammed, 31enne di Aleppo, domenica sera, quando ormai gli scrutini sono conclusi. Dalla strada arriva un clangore di latta: sono gli abitanti di Istanbul che, come ai tempi di Gezi Park, battono a ritmo pentole e coperchi e fischiano in segno di protesta e per contestare la vittoria di Erdogan. Le polemiche sono iniziate fin da prima della chiusura dei seggi, inizialmente quando, a urne ancora aperte, il Tribunale elettorale ha dichiarato valide anche le schede elettorali non timbrate, e poi quando hanno iniziato a giungere sui media testimonianze di forzature e brogli durante il voto. Domenica in strada si sono affrontate l’esultanza dei sostenitori di Erdogan e la rabbia di chi denunciava brogli. Tre persone sono rimaste uccise in una sparatoria fuori da un seggio nel sud-est a maggioranza curda. L’opposizione prima ha chiesto il riconteggio e lunedì il Chp, partito kemalista e principale forza per il No, ha annunciato che chiederà l’annullamento del voto per brogli. Anche gli osservatori dell’Osce hanno rilevato che il voto non è stato all’altezza degli standard internazionali. Ieri in conferenza stampa i membri della delegazione internazionale hanno denunciato squilibri in campagna elettorale e le modifiche dell’ultimo minuto nelle procedure di voto, senza però scendere nei dettagli. Erdogan ha già lanciato il suo avvertimento: nessuno osi sovvertire il volere del popolo. Quello votato domenica rappresenta il programma più ampio di riforme costituzionali da quando la Turchia divenne una repubblica, quasi un secolo fa. Al presidente sarà conferito il potere di nominare i ministri, emanare decreti, scegliere la maggioranza degli alti magistrati e sciogliere il parlamento. Il nuovo sistema rottamerà il ruolo di primo ministro e concentrerà il potere nelle mani del presidente, mettendo tutta la burocrazia statale sotto il suo controllo. Ieri la lira turca si è rafforzata, sperando in un po’ di stabilità, ma il ristabilimento della pace sociale sembra molto lontano.

“Penso che, nonostante la sconfitta, sia il miglior risultato che potessimo raggiungere”, spiega con un po’ di sconforto Aylin, mentre si scalda con l’immancabile tazza di tè. “Il No ha vinto a Istanbul, Ankara e in quattro delle cinque città principali”, dice Aylin, che non si chiama davvero così, e ha una lunga esperienza di attivismo politico. A Istanbul, in particolare, Erdogan non perdeva dal 2001. Nel suo discorso della vittoria, lo stesso presidente si è tenuto insolitamente sulla difensiva: “E’ la vittoria di tutta la nazione”, ha detto, con il premier Binali Yildirim che gli ha fatto eco: “Non ci sono perdenti, ha vinto la Turchia”. Ma il paese è spaccato: oltre alle fratture etniche, religiose e politiche, ora si aggiunge il peso delle accese polemiche sui brogli. Ma certo questo non è stato il plebiscito che il presidente si aspettava. “E’ il nuovo Atatürk, ha fatto più di chiunque altro per la Turchia”, spiega esaltato Derya, che vende “simit”, ciambelle salate, come Erdogan, che da giovane era un venditore ambulante. “L’Europa e l’America erano contro di noi. Ma abbiamo vinto, anche se di poco. Ci aspettavamo di più, certo, ma va bene, siamo contenti così. Ora saremo più forti e vedrete cosa può fare la Turchia”.

 

Il voto all’estero e il destino – Erdogan ha vinto soprattutto fuori dalle città, e mentre i risultati non sono ancora ufficiali – per quelli definitivi ci vorranno 11 o 12 giorni, ha spiegato la commissione Elettorale – tutti si interrogano sul ruolo dei turchi all’estero, dove i Sì hanno toccato il 59 per cento, con punte di consenso in quei paesi travolti dalle polemiche di Erdogan negli ultimi mesi, come Germania, Paesi Bassi e Danimarca. Il loro voto potrebbe perfino essere stato fondamentale. La strategia del “dàgli all’Europa nazista” ha funzionato, ma adesso molti si chiedono come farà il presidente a rimarginare le ferite aperte con il Vecchio continente.

 

“Doveva andare così. Era destino”, dice al Foglio Fatma, mentre il battello da Kadiköy dondola verso il porto di Beşsiktasş. Ma se uno al destino non ci crede? “Qui bisogna crederci, siamo in oriente”. Lo stretto che divide Asia ed Europa non era mai sembrato così largo.

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