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Senza una strategia, Trump usa l'arte del deal anche in Cina

L'approccio con i cinesi fino a questo momento non ha prodotto risultati apprezzabili per Washington, ma Trump non seguirà mai una strategia geopolitica coerente perché non pensa in quel modo, scrive il Wall Street Journal

New York. “Trump non seguirà mai una strategia geopolitica coerente perché non pensa in quel modo. Da presidente affronta il mondo come fa qualunque altra cosa, trattando tutto come un affarista che vuole negoziare accordi da rivendere come garanzie o successi economici”, scrive il Wall Street Journal, notando che le manovre con cui il presidente sta esercitando pressione sulla Cina per tenere a bada la Corea del nord sembrano suggerite da “The Art of the Deal”, non da un manuale di dottrina politica, nemmeno da quello ispirato al principio di “America First”. Nel mondo di Trump i sistemi di pensiero passano, gli affari restano, come si evince dal fatto che i “talking points” ricorrenti del presidente su qualunque argomento sono tratti dal più importante libro dopo la Bibbia, come lo ha definito lui. Con Pechino cerca un accordo vantaggioso, non un assetto strategico, quindi improvvisamente i cinesi non sono più “manipolatori di valuta”, inaccettabile scorrettezza che il candidato Trump aveva promesso di denunciare nel primo giorno alla Casa Bianca. Di fronte al lavoro di mediazione cinese nella crisi nordcoreana ora twitta speranzoso: “Perché dovrei definirli manipolatori di valuta mente lavorano con noi per risolvere i problemi con la Corea del nord? Vediamo cosa succede!”.

 

La visita del vicepresidente, Mike Pence, alla zona demilitarizzata fra le Coree, dove ha proclamato con una certa enfasi la “fine dell’èra della pazienza strategica”, va inserita nel contesto più ampio della ricerca dell’affare che fa crescere il valore dell’impresa presidenziale. La minaccia di un’azione unilaterale se il partner cinese si rifiuterà di costringere all’ordine Pyongyang è parte integrante di una strategia negoziale la cui efficacia è lungi dall’essere dimostrata: “O la Cina risolve questo problema, o lo faranno gli Stati Uniti e i loro alleati”, ha detto Pence. Il confronto commerciale con la Cina, additata come principale responsabile dei danni da globalizzazione che hanno generato le schiere dei “forgotten men”, era la priorità trumpiana nel quadrante, non il confronto nucleare con la Corea. E’ stata l’Amministrazione Obama, durante la transizione, a far notare ai nuovi funzionari l’importanza di affrontare la minaccia, e la segnalazione è stata colta e gestita secondo il modus operandi di un leader che tratta ogni cosa come un affare immobiliare, con le sue leve e i suoi ricatti. Nel caso in questione, tuttavia, c’è un vicepresidente che a pochi chilometri dal confine del regime invita l’avversario a ricordarsi ciò che gli americani hanno fatto in Afghanistan. Un modo spericolato per sfidare gli avversari, che potrebbero mollare il colpo di fronte a tanta assertività, ma anche andare a vedere il bluff.

 

La strategia dell’artista del deal con i cinesi fino a questo momento non ha prodotto risultati apprezzabili per Washington. In cambio della rinuncia temporanea alla guerra commerciale e valutaria, Pechino ha offerto qualche editoriale critico sui media di stato e si è smarcata dalla Russia in una risoluzione sulla Siria al Consiglio di sicurezza, ma non si tratta di un cambio di postura. La dichiarazione del ministro degli Esteri, Wang Yi, ricalca il ritornello dell’equidistanza: “Chiediamo a tutte le parti coinvolte di smettere di provocare e minacciare, sia con le parole sia con le azioni, per non lasciare che la situazione arrivi a uno stadio irreversibile e ingestibile”. Le concessioni offerte da Trump per ottenere un affare sulla Corea del nord non hanno al momento prodotto contropartite, se non quella – assai rilevante nella logica presidenziale – di aiutare a spingere il consenso oltre la soglia del 50 per cento. Anche a Pechino abbondano gli artisti del deal.

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