Steve Stephens al cellulare e due scene del video con l'omicidio

Il rito omicida di Steve Stephens sarebbe stato uguale senza Facebook?

Antonio Gurrado

Il killer di Cleveland ha utilizzato il social network per trasferire la responsabilità da se stesso a qualcun altro, per trovare nel mondo appoggio a una giustificazione liberatoria

Mentre scrivo non si sa quale sarà la sorte di Steve Stephens, che a Cleveland ha ucciso a bruciapelo un settantaquattrenne pubblicando il video su Facebook e causando ore di caccia all’uomo in Ohio. È invece prevedibile che questo fatto di cronaca comporterà un dibattito sul ruolo dei social network nella degenerazione dell’animo umano. Per evitare pressapochismi o generalizzazioni, è meglio individuare subito le due questioni all’ordine del giorno: dove finisca la responsabilità individuale e fino a che punto il mezzo determini il contenuto. I due temi sono più correlati di quel che appaia.

 

È inutile dire che la colpa dell’omicidio non è di Facebook, non più di quanto lo sia della pistola; in entrambi i casi si tratta di uno strumento utilizzato da un individuo per costruire un atto criminoso la cui responsabilità ricade interamente su di lui. Ciò nondimeno, è un fatto che Stephens abbia usato entrambi come armi: la pistola per uccidere materialmente, il social network per dare eco e senso alla propria azione, diffondendo panico su vasta scala. Domandarsi se Stephens avrebbe ucciso comunque se non fosse stato possibile pubblicare video online è ozioso. Domandarsi se avrebbe inscenato la medesima ritualità è legittimo. Al netto dell’orrore delle immagini, della stretta al cuore al vedere il pensionato che si fa scudo della borsa della spesa, la caratteristica del video è che è stato concepito come parte integrante di una storia. Non si è trattato di una diretta, come sulle prime si riteneva e come sarebbe stato possibile, bensì di materiale caricato successivamente col titolo “Easter day slaughter” e che Facebook ha eliminato tre ore dopo, assieme al profilo dell’omicida. Questi, in video completivi, sostiene di avere ucciso varie altre persone, oscillando fra i tredici e i quindici cadaveri di cui tuttavia la polizia non ha notizia; quest’autoaccusa è accompagnata dal progressivo disvelamento, sempre online, delle spiegazioni dell’uccisione. Al vecchio ha fatto pronunciare il nome della propria fidanzata spiegandogli che era il motivo per cui l’avrebbe ucciso in un attimo. Alla madre, nel corso di una telefonata interrotta, ha dato la stessa spiegazione salvo poi passare in ulteriori video online ad additare come causa dell’evento l’impossibilità di parlare con la madre, o l’aver perso tutto al gioco, o le difficoltà sul lavoro.

 

Tale serie di concause incoerenti del medesimo omicidio significano che Stephens ha utilizzato il social network come piattaforma per comunicare al mondo il trasferimento della responsabilità da se stesso a qualcun altro, per trovare nel mondo appoggio a una giustificazione liberatoria. Questa è la prima delle due questioni. Per sgravarsi della responsabilità si è conferito una promozione da criminale a cronista di nera, diventando al contempo soggetto e oggetto dell’evento che avveniva sui social. E questa è la seconda questione: lo spiegare e giustificare il proprio delitto è stato possibile a Stephens (o gli è stato addirittura suggerito?) grazie a un mezzo di comunicazione il cui scopo consiste nel rendere ciascun utente sia narratore sia protagonista della propria stessa storia. Sono due aspetti che si autoalimentano, poiché chi narra ha bisogno di eventi quanto più eclatanti e chi agisce sa che non c’è evento che non possa essere spiegato da un narratore: sotto questa luce i social network sono intrinsecamente giustificatori. Al di là dalla patetica velleità di Facebook nell’asserire che non è consentita la pubblicazione di contenuti violenti, e dall’ovvio dissociarsi dal crimine orrendo, resta il fatto che mentre poliziotti in carne e ossa stanno battendo strade di asfalto alla ricerca di un uomo con un’arma vera, già un centinaio di utenti Facebook ha messo “mi piace” alla pagina “Steve Stephens – personaggio pubblico”: taluni dandogli del bastardo e augurandogli l’inferno, talaltri (un italiano, magari il vostro vicino di casa) sperando che gli americani si uccidano l’un l’altro in quanto popolo privo di cultura.