Jean-Luc Mélenchon (foto LaPresse)

Mélenchon, la Francia e lo snobismo di sinistra

Giuliano Ferrara

Cosa ci dice il tocco del candidato che dovrebbe spaventare e invece fa simpatia

Lo snobismo è di sinistra. Ora in Francia va forte Jean-Luc Mélenchon, di cui si dice che potrebbe addirittura superare François Fillon il gollista, e piazzarsi, dopo aver lasciato a piedi sotto il 10 per cento Benoît Hamon, socialista hollandista malgrado una carriera di frondista, addirittura terzo dopo Emmanuel Macron e Marine Le Pen, o chissà, le sorprese non finiscono mai. Sostenuto dal Partito comunista, organizzazione minimale e senza più prestigio, e da un movimento gauchista che ha preso il nome di “la France insoumise”, la Francia ribelle, Mélenchon guarda i sondaggi con degnazione e sta attento alle sopravvalutazioni, cinque anni fa sfondò per la prima volta contro François Hollande, che allora era il voto utile per battere la destra di Nicolas Sarkozy, il muro del 10 per cento, ma i sondaggi gli avevano dato un cinque per cento in più, e la delusione fu notevole. Tuttavia il voto utile non c’è più, almeno al primo turno, perché Macron, in gara come sfidante della Le Pen, non rappresenta una tradizione di sinistra, anzi si dice al di là del vecchio discrimine che deride come un dannoso e inutile ping-pong, e comunque la sua cultura ed esperienza liberale e di mercato gli aliena molte simpatie della gauche, i cui elettori adesso considerano Mélenchon, che di tanto sopravanza nei sondaggi il socialista grigio, come il loro voto utile per votare a gauche ma non un erede di Hollande e non il liberale Macron.

 

Bene, bisogna dire che non è una questione di aritmetica, e tanto meno di programmi (Mélenchon vuole uscire dalla Nato e sconfiggere la povertà, sono le sue bandiere). Come per il beaujolais, (le beaujolais nouveau est arrivé, si legge nei menu dei bistrot) il candidato nuovo è arrivato anche lui: dimagrendo cinque chili a forza di ingozzarsi di un famoso taboulé molto dietetico, togliendo il rosso dai manifesti, abbracciando l’ecologia in un nuovo ambito ideologico in cui il problema non è più trasformare il mondo ma preservarlo (un po’ come il Cav. che adesso si preoccupa degli agnellini); il candidato nuovo è patriarcale, una bella faccia non nuova e che non si vuole nuova, istrioneggia con la sua cultura umanista, parla di pace, solletica l’istinto e l’orgoglio della ribellione allo status quo, il suo identitarismo tiene conto della solidarietà, termina il suo comizio di Marsiglia, tenuto nel gran sole al porto vecchio della darsena e pieno di folla fin sulla Canebière, con una poesia di Jannis Ritsos, perché la Grecia fa scena con i prezzi pagati alla diabolica mondializzazione e Ritsos, buon lirico, conosceva come pochi il dolce dir niente della lirica mediterranea. Insomma, Mélenchon ha una posizione di partenza fortunata, e si aiuta a prosperare con scaltrezza e una certa teatrale impudenza.

 

Un’altra cosa che lo aiuta, in questa cabala divertente e per i sondaggi molto rilevante, è il carattere un po’ flou, un po’ vago e freddo, del liberalismo macroniano, la persistente distinzione in francesità vichysta di Marine (che ha rispolverato la fola compiacente secondo cui la razzia di ebrei del 1942 al Vel d’Hiv, in cui la polizia di stato si prese 13.000 persone e le inviò nei campi, non era responsabilità della Francia), e il gollismo stanco, serioso ma non molto credibile, di Fillon (affaires a parte). Il tocco snobistico del consenso a Mélenchon si nutre di vecchie glorie iconologiche, le sfilate dalla Bastille alla République, tanto più colorate e vivaci delle sale da Fiera commerciale in cui si chiudono gli altri candidati, appunto i comizi en bord de mer, l’attivismo immaginifico youtubico e l’ologramma, la sua grande trovata, esserci davvero in una città, e riprodursi come dal vero in altre sei città, che è stato il format di successo della sua prima uscita e lo sarà dell’ultimo comizione in programma. 

 

La Francia è strana. Ha ben due candidati trotskisti su undici. Nella foresta dei suoi idoli ci sono come sempre lo stato, idolo degli idoli, la cittadinanza, l’universalismo dei diritti e l’interesse nazionale e sovranista, pariottico, la cultura e l’education nationale, qualcosa di più della semplice scuola, una miscela spesso confusa di ragioni che si alleano, collimano, divergono e si scontrano in un conflitto carico di richiami alla storia, perfino a Vercingetorige vincitore di Giulio Cesare, di suggestione, di bella lingua, e anche di buone idee, ma forse troppo ricco di promessa e di canto corale. Sia come sia, questo grande paese non si è voluto far mancare, e nessuno può dire fino a che punto arriverà, il candidato che dovrebbe spaventare e invece fa simpatia, rimesta bonario nel vaso ribollente della speranza di primavera, e sopra tutto fa chic. Il nostro buon Bertinotti, è noto, sbagliò l’arcobaleno, qui i colori per adesso sembrano quelli giusti.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.