Un cartellone del presidente siriano Bashar el Assad domina sulle rovine di Aleppo (foto LaPresse)

L'egemonia assadista

Daniele Raineri

Per fare la guerra dura all’Isis non serve la tessera del partito Baath siriano

Ricordate quando nel maggio 2004 il terrorista giordano Abu Mussab al Zarqawi uccise davanti a una telecamera l’ostaggio americano Nicholas Berg? Su internet molti commentatori increduli spiegarono che probabilmente si trattava di una cosiddetta operazione “false flag” (ovvero quella che si fa sotto una bandiera che non è la propria, per ingannare gli osservatori e far cadere la colpa su qualcun altro) degli americani per gettare cattiva propaganda sugli insorti iracheni. A nulla valeva il fatto che il filmato si intitolasse “Lo sceicco al Zarqawi sgozza un infedele” e che il terrorista spendesse i primi cinque minuti del video a leggere una spiegazione dottrinale – scritta dal suo consigliere religioso e zeppa di riferimenti e citazioni – che riguardava perché stava per tagliare la testa al prigioniero. I commentatori non ci credevano e non volevano fare la figura di quelli che abboccavano. Respingevano con scetticismo l’idea di un colpo di teatro così ripugnante e sospettavano che la responsabilità fosse piuttosto di qualche sicario in passamontagna assoldato dai servizi segreti americani. Sono passati tredici anni, centinaia di video molto simili hanno distrutto l’idea che il video di Zarqawi fosse una messinscena e ci siamo assuefatti alla realtà: in medio oriente ci sono gruppi islamisti di macellai fanatici. Oggi pare di rivivere quei giorni, perché si fa fatica ad accettare che una settimana fa esatta il governo siriano del presidente Bashar el Assad abbia ordinato uno strike chimico a sud di Idlib – che nei piani doveva essere limitato, perché secondo le notizie più aggiornate in questo momento un solo missile conteneva l’agente nervino. Meno di così non si poteva fare, come fosse un test. Il contrario del bombardamento con più razzi contro una parte densamente popolata dell’hinterland di Damasco nell’agosto 2013 – che infatti fece 1.400 morti.

 

Gli islamisti tagliano teste e i baathisti hanno una lunga storia d’amore con le armi chimiche, dovremmo sapere entrambe le cose

La Siria è un paese dominato dal partito Baath, come era anche l’Iraq fino al 2003, e c’è una lunga storia di uso delle armi chimiche da parte dei baathisti. Durante la guerra tra Iran e Iraq negli anni Ottanta, il dittatore iracheno Saddam Hussein ordinò l’uso di armi chimiche per respingere gli assalti degli iraniani, che non soltanto erano stati capaci di assorbire la sua aggressione, ma ora minacciavano di montare un contrattacco di successo. All’epoca la questione era considerata poco più che una faccenda privata tra due stati e non ci fu scandalo. L’uso di armi chimiche faceva parte della dottrina militare dei baathisti come arma di deterrenza capace di arrestare le aggressioni esterne – e per questo ruolo erano chiamate “l’arma atomica dei poveri”. Anche quando gli americani invasero l’Iraq, nel marzo 2003, si parlò di nuovo di una ideale “linea rossa” tracciata da Saddam attorno alla capitale Baghdad: se le truppe straniere l’avessero attraversata, allora sarebbe scattata la rappresaglia chimica (per fortuna, quella linea rossa non fu rispettata: capita spesso alle linee rosse, vedi quella tracciata contro le armi chimiche dal presidente Barack Obama nel luglio 2013). Alla fine degli anni 80, tuttavia, Saddam ordinò l’uso delle armi chimiche contro la sua stessa popolazione e colpì i curdi del nord – era l’operazione al Anfal, ovvero la persecuzione sistematica e il saccheggio che costarono la vita a quasi duecentomila curdi tra il 1986 e il 1989. Il nome Anfal viene dalla ottava sura del Corano, la Surat al Anfal, e si riferisce alle “spoglie di guerra”, perché il generale che comandava le unità militari impegnate nella campagna aveva annunciato ai suoi soldati che era permesso prendere i beni dei curdi uccisi o in fuga – dal bestiame ai soldi.

 

L’uso delle armi chimiche fa parte anche della dottrina militare siriana. Nel 1993 l’intelligence russa scoprì che i siriani avevano raggiunto l’autosufficienza nello sviluppo di armi chimiche, incluso l’agente nervino. Sentite cosa aggiungono: “Com’è tipico da parte loro, i siriani non considerano le sostanze tossiche militari a disposizione dell’esercito come WMD, armi di distruzione di massa. Secondo la dottrina militare siriana, le armi di distruzione di massa sono componenti della parità militare con Israele e saranno usate soltanto in caso di un’aggressione su grande scala da parte di Israele contro la Siria”. Tuttavia, questo era il 1993 e lo scenario è cambiato. Anche i missili balistici Scud in teoria fanno parte dell’arsenale preparato dalla Siria per fronteggiare una guerra con gli israeliani, ma poi sono stati usati contro la metà di Aleppo in mano ai ribelli con effetti devastanti. Del resto, cos’è anche Hezbollah se non un piccolo esercito libanese creato per fare la guerra contro Israele e poi finito in Siria a fare controinsurrezione al servizio di Assad contro i ribelli siriani (e anche molto bene)?

 

A proposito di baathisti e del loro modo di pensare. Le parole del segretario di stato americano, Rex Tillerson, da Ankara quattro giorni prima del bombardamento possono ricordare il disastroso equivoco tra l’ambasciatrice americana April Catherine Glaspie e Saddam Hussein nel 1990. Tillerson ha detto che “il fato di Assad sarà deciso dal popolo siriano”. Nikki Haley, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, subito dopo ha rafforzato questo concetto da New York e ha detto che “la nostra priorità non è più rimuovere Assad” (poi ha cambiato posizione dopo l’attacco chimico). Il dubbio è che sia successa una replica di quanto accadde il 25 luglio 1990 durante l’incontro tra l’ambasciatrice Glaspie e Saddam. “Abbiamo notato l’ammassarsi di truppe irachene al confine sud, con il Kuwait”, disse lei, e poi secondo la trascrizione aggiunse: “Non abbiamo una posizione sui conflitti arabi, come la vostra disputa con il Kuwait. Il segretario Baker mi ha detto di riferivi che il problema del Kuwait non è associato con l’America”. Ci si è chiesti molto se il dittatore iracheno non abbia sentito in queste due frasi un via libera da parte di Washington – anche se la Glaspie intendeva che il problema era comunque da risolversi con negoziati pacifici. Il 2 agosto le truppe di Saddam invadevano il Kuwait.

 

Meno di ventiquattr’ore dopo l’attacco con armi chimiche, la Russia ha offerto una copertura diplomatica al presidente siriano e ha fatto circolare una versione alternativa dei fatti: “Gli aerei siriani hanno colpito accidentalmente un deposito di armi chimiche dei ribelli siriani e le esalazioni hanno colpito i civili”. Il comunicato del ministero della Difesa russo obbedisce alla prima regola della disinformazione: creare confusione, nebbia, incertezza e costringere i media a scrivere titoli esitanti, senza attribuzione di responsabilità – cosa che è regolarmente successa. Non c’è bisogno di dimostrare una verità alternativa in competizione con l’altra, basta creare scompiglio. Poco importa quindi che il ministero della Difesa russo abbia sbagliato l’ora del raid – la versione russa parla delle undici e mezza, ma l’attacco è avvenuto prima delle sette di mattina – e che il sarin per la sua natura instabile e corrosiva non possa essere stoccato già pronto all’uso (si possono soltanto conservare gli ingredienti e poi miscelarli con un procedimento speciale poco prima dell’uso: e noi siamo chiamati a credere che una bomba d’aeroplano abbia fatto tutto questo). Poco importa che i testimoni diretti abbiano detto “Ci ha colpito un aereo, il sarin è scaturito da quel bombardamento”, che i team medici abbiano confermato l’uso di sarin, che sia uscito anche il tracciato radar dell’aereo che portava il missile caricato con l’agente tossico e che un reporter del Guardian, Kareem Shaheen, sia arrivato e non abbia trovato nessun deposito sul luogo e abbia fotografato il punto d’impatto del missile – in mezzo a una strada. Poco importa perché ormai l’assadismo è questione di fede, chi vuole credere crede. L’assadismo – come categoria cruda del putinismo – è egemone, come si diceva della sinistra nella cultura degli anni Settanta: domina la conversazione, intimidisce i media, fa sentire molto intelligenti e aggressivi i suoi adepti e fa sentire i suoi critici marginali e inattuali. L’assadismo scorre potente. La versione data dal ministero russo è considerata quella autentica al punto che, come scrivono il sito della rete Cnn e Politico, gli stessi sostenitori del presidente americano Donald Trump lo abbandonano perché, messi davanti a una scelta, tra l’asse Assad/Putin e il presidente scelgono il primo. Trump in qualche modo ha tradito la loro visione del mondo, si fida dei militari e dell’intelligence che sono certi della responsabilità dell’apparato militare siriano. Sembra assurdo che gli ex fan di Trump non stiano dalla parte del loro presidente, considerato che in teoria fanno parte dello schieramento iperpatriottico dei repubblicani – ma non riescono a digerire il reato di leso assadismo. Sembra assurdo anche che davanti a un assist d’oro e storico come quello che è appena capitato alla destra americana – l’Amministrazione Obama si è fatta fregare da un dittatore arabo e forse dal broker del deal, a Mosca, roba da rimettere in discussione l’eredità, altro che Bengasi – la reazione sia: c’è un complotto contro Bashar el Assad. Il raid missilistico di venerdì invece che essere preso per quello che è stato – uno show muscolare da sessanta milioni di dollari che ha ucciso sei soldati siriani – è stato frainteso come l’inizio di una campagna militare per il regime change – e non pare proprio il caso. Il fatto che sia stato fissato un precedente interessante – si può esercitare la forza coercitiva su Assad e non essere suoi partner e allo stesso tempo fare la guerra dura contro lo Stato islamico – sta andando ignorato.

 

L’assadismo va forte, fa parte con Putin e il Venezuela di quel pacchetto ideologico preso in blocco e con entusiasmo dai grillini

L’egemonia assadista fa parte dell’offerta politica che sta sconvolgendo il panorama politico europeo, quindi dello stesso pacchetto che include Putin (visto come custode della Tradizione), il Trump da campagna elettorale (un po’ meno, come abbiamo visto, quello da Studio ovale), il no all’euro, il tifo a favore di Brexit, una generica simpatia verso il gruppo libanese Hezbollah, il sovranismo e il rifiuto dell’Europa unita, una spruzzata di silenzio da parte della Chiesa, la diffidenza verso i vaccini e una cordiale intesa con il Venezuela di Maduro. L’arco costituzionale è molto ampio, ma lo spirito del tempo è tale che se ti riconosci in una di queste proposte c’è una probabilità molto alta che tu voglia poi abbracciare il pacchetto intero. L’ammirazione incondizionata aiuta.

 

In Francia due candidati, Jean Luc Mélenchon e Marine Le Pen, stanno dalla parte di Assad e hanno subito condannato il raid americano di punizione vicino Homs. Un terzo candidato, François Fillon, è meno esplicito ma comunque sente l’attrazione gravitazionale verso Mosca (e quindi anche un po’ verso Damasco).

 

In Italia Matteo Salvini il giorno dell’attacco ha pubblicato un video di mezz’ora su Facebook per dire che la fonte della notizia, l’Osservatorio siriano per i diritti umani, non è credibile perché non è sul posto – trascurando però il fatto che ci sono centinaia di altre fonti dirette dal posto. Il Movimento 5 stelle, che è in testa ai sondaggi come primo partito italiano e che a settembre 2015 ha chiesto la fine delle sanzioni contro il governo di Assad, è scattato come un sol uomo. Manlio di Stefano ha definito “una follia” l’approvazione da parte del governo Gentiloni del raid americano ridotto, Alessandro di Battista ha definito il premier “un vassallo” (di Trump?) e mesi fa aveva detto che “se Assad è un dittatore lo decideranno i cittadini siriani e lo butteranno giù loro”. Massimo Castaldo, europarlamentare che poche settimane fa ha incontrato il rais a Damasco, dice di dubitare che il governo siriano sia responsabile e di dubitare anche dell’informazione mainstream. Luigi di Maio, candidato a diventare premier, si è cavato d’impaccio così: “Tenete presente che i missili lanciati ieri dagli Stati Uniti ci costano circa 60 milioni di dollari. Se avessero sganciato 60 milioni di dollari in banconote verso le popolazioni in difficoltà, non le avrebbero aiutate di più?”.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)