Theresa May (foto LaPresse)

Oltre le linee guida

La May è baldanzosa, ma sulla Brexit l'Ue è in una posizione di forza

David Carretta

"All'asimmetria commerciale corrisponde un'asimmetria negoziale", dice una fonte a Bruxelles. Tutti i dossier

Bruxelles. L’Unione europea affronta il negoziato sulla Brexit convinta di essere in posizione di forza, al punto che la minaccia di Theresa May di tagliare la cooperazione sulla sicurezza in caso di mancato accordo sull’uscita del Regno Unito non spaventa nessuno dentro i palazzi comunitari. “Escludo che la cooperazione sulla sicurezza sia usata come merce di scambio. Deve essere un malinteso”, ha minimizzato oggi il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, presentando le linee guida dei negoziati che i leader dell’Ue a 27 dovrebbero adottare in un vertice straordinario il 29 aprile. “Le minacce vuote sono un’arma spuntata e controproducente”, spiega al Foglio un alto funzionario dell’Ue, che ha lavorato alla posizione negoziale dei 27. Malgrado la baldanza di May, gli europei hanno una specie di arma nucleare a disposizione nei negoziati dei prossimi due anni. Se entro il 29 marzo 2019 non ci sarà un accordo sulle modalità della Brexit, possibilmente accompagnato da una serie di norme transitorie che consentano a Londra di rimanere con un piede nell’Ue per qualche anno in più anche dopo l’uscita formale, il Regno Unito si troverà fuori dal club, fuori dal mercato interno e fuori dall’unione doganale. Insomma, diventerebbe un qualsiasi paese membro dell’Organizzazione mondiale del commercio, al quale sarebbero applicate barriere tariffarie e regolatorie altissime su prodotti e servizi (compresi quelli finanziari). “Sarebbe catastrofico per i britannici”, dice il funzionario. Poiché “la relazione di interdipendenza economica è asimmetrica”, altrettanto asimmetrica è la forza negoziale sulla Brexit. Tutta a vantaggio dell’Ue. 

 

Un “no deal” sulla Brexit sarebbe “negativo per l’Ue, ma sarebbe molto negativo per il Regno Unito”, sintetizza l’alto funzionario. Secondo i dati del 2015, il 44 per cento delle esportazioni britanniche va verso l’Europa, contro il 9,5 per cento di esportazioni europee che va verso il Regno Unito. Anche le esportazioni britanniche extra Ue subirebbero un duro colpo: le imprese d’oltremanica non potrebbero più beneficiare delle tariffe vantaggiose che derivano dall’unione doganale di cui è parte anche la Turchia o dagli accordi di libero scambio che l’Ue ha concluso con Corea o Canada. Inoltre, Londra manca delle strutture amministrative necessarie a gestire tutti i settori che sono stati subappaltati a Bruxelles negli ultimi 40 anni. Il caponegoziatore della Commissione, Michel Barnier, ha avvertito che senza accordo il pericolo è che le centrali nucleari smettono di funzionare, che gli aeroplani rimangono a terra e che ai porti si formino lunghe file di camion per controllare tutte le merci in entrata e in uscita. Del resto, May già ora si trova in difficoltà, perché non ha il personale e l’expertise necessari per condurre i negoziati sulla Brexit. “Dall’altra parte della Manica c’è il caos”, dice una fonte ben informata: “Non sappiamo se a guidare le trattative sarà David Davis, Boris Johnson o uno sherpa di May”. A Bruxelles in molti sottolineano che “ci sono voluti ben 9 mesi” al governo di Londra solo per “partorire” la lettera con cui ha attivato le procedure di uscita previste dall’articolo 50 del Trattato.

 

Visti i rapporti di forza, i 27 sono convinti che May abbia tutto l’interesse a fare concessioni sulle priorità indicate nella bozza di linee guida di Tusk. Al primo posto ci sono i cittadini e le imprese: occorre fare chiarezza sullo status di chi risiede nel Regno Unito e garantire certezze giuridiche per chi vi fa affari. Al secondo posto, il presidente del Consiglio europeo ha indicato il conto che i britannici devono pagare per gli impegni finanziari assunti come membro del club. Al terzo posto, c’è la pace in Irlanda del nord, che deve essere garantita attraverso una soluzione “flessibile e creativa” per mantenere aperta la frontiera con la Repubblica d’Irlanda, ha detto Tusk. Solo quando si saranno fatti sufficienti progressi su queste tre priorità, i 27 inizieranno a discutere anche delle future relazioni tra Regno Unito e Ue, in particolare dell’accordo di libero scambio che May ha chiesto nella lettera con cui ha attivato le procedure di uscita dell’articolo 50 e che comunque non potrà essere negoziato e concluso prima della Brexit (serviranno almeno altri due anni, più il tempo necessario per le ratifiche nazionali). Al di là delle tre priorità, ci sono altre questioni sensibili che rischiano di far saltare i negoziati. Nelle linee guida, i 27 hanno preso posizione a favore della Spagna nel conflitto territoriale con il Regno Unito su Gibilterra. “C’è una differenza, dopo la notifica dell’articolo 50: siamo in un’Ue a 27 e una sola parte di questa contesa su Gibilterra è membro della famiglia”, dice un diplomatico. Gli eventuali accordi transitori dovranno sottostare alla giurisdizione della Commissione e della Corte europea di giustizia. “Non si può prolungare l’accesso al mercato interno senza imporre al Regno Unito di sottostare al macchinario della Commissione e della Corte”, spiega il diplomatico.

 

In realtà, già le tre priorità contengono al loro interno elementi esplosivi. La Commissione di Jean-Claude Juncker ritiene che “entro la fine dell’anno si arriverà alla prima grave crisi nei negoziati, probabilmente sugli aspetti finanziari”, rivela al Foglio una fonte comunitaria. “Ci saranno enormi pressioni da parte dei brexiteers per non fare concessioni”. La premier britannica accetterà di concedere a tutti i lavoratori europei – spagnoli come polacchi – e alle loro famiglie il diritto di restare nel Regno Unito e di beneficiare delle sue prestazioni sociali? Il governo di Londra sarà disposto a pagare i 60 miliardi di conto che gli europei sembrano intenzionati a presentare? Se non si troverà una soluzione creativa per la frontiera nordirlandese, May è pronta a una riunificazione dell’Irlanda in stile Germania come previsto dagli accordi del Venerdì santo? Barnier ha ordinato a tutte le direzione generali di fare la lista delle conseguenze di un “no deal”. La squadra di Juncker – dice la fonte comunitaria – stima a “più del 50 per cento le probabilità che non ci sia accordo”.

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