Una manifestazione di simpatizzanti del presidente Maduro (foto LaPresse)

In Venezuela Maduro esautora il Parlamento: dittatura compiuta

Alberto de Filippis

Pieni poteri al regime, che in un anno ha schiacciato nella violenza le speranze democratiche. Reportage da Caracas

Caracas. Approfittando di un cavillo, giovedì il regime chavista del Venezuela ha esautorato il Parlamento controllato dall’opposizione e – in una mossa di poco precedente – ha affidato al presidente Nicolás Maduro i pieni poteri in materia militare, economica, sociale, politica e civile. La decisione, presa dalla Corte suprema del paese controllata dai chavisti, segna la fine delle speranze democratiche iniziate nel dicembre 2015 con l’elezione di una maggioranza d’opposizione al Parlamento, e la fine per il paese della farsa secondo cui i sostenitori del regime chavista potevano ancora dire che in Venezuela vige un regime voluto dal popolo: da giovedì – è ufficiale ormai – a Caracas siede una dittatura feroce, e l’ultimo anno racconta come un regime illiberale abbia soffocato tra la repressione e la violenza la timida primavera democratica che iniziava a sbocciare.

 

Ancora un anno fa, il Venezuela era uno stato in difficoltà, ma fiero. Migliaia di persone scendevano in strada più volte alla settimana per chiedere democrazia. Il Consiglio nazionale elettorale (di nomina governativa) aveva fatto di tutto per annullare le firme di cittadini che chiedevano un referendum revocatorio contro Nicolás Maduro. I manifestanti per la democrazia avevano raccolto oltre due milioni di firme, anche se chi firmava sapeva che rischiava di finire nelle liste di proscrizione che limitano l’accesso alla sanità o alle distribuzioni di beni di prima necessità – le “claps”, le buste piene di generi alimentari che dovrebbero essere per tutti, ma che poi finiscono solo ai chavisti.

 

Nel marzo 2017 il Venezuela è un paese in ginocchio. Le strade sono vuote di manifestanti, ma piene di gente che corre da una parte all’altra cercando di trovare qualcosa da mangiare. Dal punto di vista strategico, però, i chavisti non hanno sbagliato una mossa. Prima della presa di potere da parte di Maduro, il regime aveva già fatto morire il referendum ed era riuscito a spaccare l’opposizione con finti inviti al dialogo. In uno di essi è caduto persino il Vaticano, che si è poi chiamato fuori. E’ stato allora che il regime ha cercato di mettere la conferenza episcopale nazionale e la Santa Sede l’una contro l’altra.

 

Il cardinale Jorge Urosa, arcivescovo di Caracas, riceve il Foglio nella sua residenza non prima di aver indicato la casa di fronte: “Vede? Lì dentro si alternano agenti che mi controllano 24 ore al giorno. Non ho nulla nascondere, ma non mi meraviglierei di avere microfoni in casa”. E per spiegare il misticismo su cui si fonda il chavismo dice: “Hanno cercato di approfittare del sentimento religioso della gente ammantando di un’aura divina il capo, il presidente. Se questo però con Chávez poteva funzionare, dato lo spessore del personaggio, con Maduro è impossibile, visto che sempre più persone sono convinte, persino nel suo campo, della sua incapacità nel rivestire il ruolo di presidente. Ci hanno accusato di voler boicottare il dialogo, ma è stato il governo a non rispettare i patti. I prigionieri politici restano in galera, non si conosce la data delle elezioni e non si fa nulla per risolvere la scarsità di medicinali e generi alimentari”. Il regime, infatti, respinge alle frontiere molti aiuti per non dover ammettere che il paese è allo sbando.

 

Il dialogo è interrotto, ma il chavismo ha colto l’occasione e oggi chi protesta in strada finisce direttamente in galera. Le code davanti ai negozi di alimentari si sono allungate, ma sono diventate invisibili sui media, ormai quasi tutti espropriati, strangolati economicamente o in esilio. Non passa giorno senza che un corrispondente non sia buttato fuori dal Venezuela, come accaduto alla Cnn o ai messicani di TeleAzteca.

 

Ma è soprattutto una visita in Parlamento, pochi giorni prima della sentenza che l’ha privato di poteri, che provoca straniamento. L’Assemblea è da tempo in mano all’opposizione. Questa ha chiesto aiuto all’Osa, l’Organizzazione degli stati americani, per sospendere il Venezuela dal consesso degli stati americani e inviare una delegazione di osservatori. Molti sospettano che sia stata questa richiesta a scatenare le ire del regime chavista, i cui deputati non partecipano più da tempo ai lavori d’Aula: le poltrone della loro parte dell’emiciclo restano vuote. Non solo. I deputati oppositori non sono pagati da mesi perché questa voce di spesa è scomparsa dal bilancio dello stato. Ma anche l’opposizione ha i suoi limiti. Il Tavolo dell’unità democratica (Mud), manca di un leader di riferimento e di un vero programma di governo che gli permetta di sopravvivere anche se dovesse vincere eventuali elezioni – che non saranno fissate fino a quando il governo non avrà la certezza della vittoria.

 

Un dramma nel dramma è quello che coinvolge le migliaia di nostri connazionali. Per molti di loro le pensioni erano precipitate ad appena otto dollari americane al mese, e solo grazie a un intervento dell’ambasciata sono state integrate a una cifra buona almeno per sopravvivere. In Venezuela, oggi, la sopravvivenza è un obiettivo difficile da raggiungere. Gli italo-venezuelani raccontano anche del dramma della sicurezza: quasi nessuno è scampato da un rapimento o tentato rapimento, e la squadra antisequestri della polizia è complice: “Sono stato preso di fronte al mio ufficio e minacciato da uomini armati in un’automobile. Mi hanno chiesto di pagare il pizzo”, ci dice un uomo, che come quasi tutti chiede di non essere citato con nome e cognome. “Quando sono andato alla polizia per denunciare il fatto, chi avrebbe dovuto raccogliere la mia deposizione era la stessa persona che mi aveva sequestrato”.

 

Le cause del collasso venezuelano sono endogene. Il crollo del prezzo del petrolio sui mercati internazionali ha certamente giocato un ruolo, ma non certo il più importante. Gli economisti indipendenti sono concordi: è stato il regime a trascinare il paese alla rovina. Oggi una delle risposte più sensate – che però tradisce la disperazione della situazione – per uscire dalla crisi la offre un ex avvocato d’affari, ex presidente di un centro italo-venezuelano: “Noi a questa gente del governo dobbiamo dare una via di uscita. Magari vorrebbero andare via, ma non sanno dove. Hanno tantissimo denaro, ma non sanno come spenderlo e temono di essere estradati negli Stati Uniti. Se non permettiamo loro di salvarsi non molleranno mai il potere”.

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