L'auto usata dall'attentatore di Westminster (foto LaPresse)

Lì a Westminster c'è una ferita che non sappiamo curare

Paola Peduzzi

Tra strumentalizzazioni e “new normal” manca il tassello di una strategia che sia difesa e attacco

Quelli che non permetteremo ai terroristi di cambiare le nostre vite, di qui; quelli che siamo addolorati ma non sorpresi, di là. In mezzo a queste due reazioni si muove da tempo il cordoglio di fronte a un attentato terroristico dentro ai confini della nostra vulnerabile Europa. Nessuno vuole cedere, è ovvio, vinceremo noi e non loro, ma ogni volta ci sentiamo meno forti – o forse anzi, cosa tremenda, quasi assuefatti. È il new normal, gli islamisti ce lo ripetono ogni giorno che verranno a terrorizzarci nelle nostre case, nei nostri bar, nei nostri ristoranti, nelle nostre movide, nei nostri parlamenti, di cui siamo così orgogliosi perché sono il nostro successo più grande – ed era orrenda ieri la galleria di immagini della Westminster ferita pubblicata da quell’obbrobrio di sito populista che si chiama Westminster. Poi l’attentato accade e cerchiamo di contenere i danni – e ieri gli inglesi sono stati bravissimi, rapidi, efficaci, poco allarmisti: educarsi alla difesa si può – ma con la rassegnazione di chi sa che succederà ancora. I movimenti anti immigrazione s’addolorano ma ribadiscono: “Non sono sorpreso”, ha detto Nigel Farage, mentre qualche giorno fa, al dibattito tv per le elezioni francesi, la frontista Marine Le Pen ha ripetuto che assieme agli immigrati arrivano i terroristi.

 

Ci attaccano perché siamo liberi o ce la siamo cercata perché non ci proteggiamo abbastanza da una minaccia esistenziale? Ci si divide su questo interrogativo, mentre si cerca di capire se l’intelligence s’è sbagliata un’altra volta o dove sia stato l’errore, provando a intercettare nei tecnicismi un modo per salvarci. Vorremmo poter dire “mai più” e mantenere, almeno una volta, la promessa. Ma questo desiderio implica una strategia, una visione, una determinazione anche, impopolare e poco calcolata, e di leader disposti a perdere il consenso per combattere non ce ne sono in giro molti. Anzi, ci chiudiamo sempre di più – la Brexit è la sintesi tragica di questo impulso: per chiuderci rinunciamo anche ai vantaggi economici di un mercato comune –, noi qui dentro e voi là fuori, come se l’impermeabilità dei confini, il ritorno a un’autarchia ideologica potessero davvero tenere lontano chi non sarà sazio finché non ci avrà piegati. Servirebbe semmai il contrario, unirsi volenterosi assieme per imparare a difenderci sì, con i controlli e con le misure di sicurezza, ma anche ad attaccare, ché è lì che i terroristi sguazzano, nella nostra disunione imbambolata. 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi