Donald Trump (foto LaPresse)

Il finto scoop sulle tasse di Trump distrae dalla faida repubblicana

La dichiarazione dei redditi copre il dibattito cruciale sulla Sanità e le indagini sui rapporti con il Cremlino

New York. Anche Michael Moore si è rimangiato in fretta il cinguettio. Martedì sera ha twittato con urgenza “accendete su Rachel Maddow! Msnbc!”, invitando i follower ad ascoltare la trasmissione che prometteva rivelazioni esplosive su una vecchia dichiarazione dei redditi di Donald Trump recuperata chissà come. E’ ben presto diventato chiaro che Maddow non aveva fra le mani un nuovo Watergate, soltanto due paginette di oltre un decennio fa che testimoniano che l’arcimilionario Trump godeva di un’aliquota bassa per la sua statura finanziaria, ma non così tanto. Bernie Sanders in quegli anni ne pagava pure meno, e così anche Barack Obama. Il regista-attivista ha annusato la trappola: “Chiaramente la fonte della dichiarazione dei redditi è Trump stesso. Mancano dieci o venti pagine con le informazioni chiave. E’ per distrarci dalla Russia e dalla riforma sanitaria”.

 

Che il presidente sia o meno la fonte di questo “autoleak”, la tecnica della distrazione, un classico trumpiano, ha funzionato anche questa volta, attirando la conversazione politica verso una scena in cui non c’era quasi nulla da vedere. Sono gli accorgimenti dei “mercanti dell’attenzione”, come l’eclettico professore Tim Wu chiama i grandi player tecnologici e mediatici che costantemente combattono per ottenere un nostro sguardo fugace. Il finto scoop di Maddow ha parzialmente deviato il ciclo delle news da una serie di grattacapi molto rilevanti per il presidente. Innanzitutto, gli sviluppi sull’accusa mossa a Obama di avere intercettato le comunicazioni nella Trump Tower durante la campagna elettorale. Ieri il capo della commissione intelligence alla Camera, il repubblicano Devin Nunes, ha detto che non ci sono prove a sostegno dell’accusa: “Non penso che la Trump Tower fosse davvero intercettata”, ha spiegato, aggiungendo che se i tweet a questo proposito vanno presi alla lettera “allora chiaramente il presidente aveva torto”. Ci sono poi gli sviluppi del ramificato caso che riguarda i rapporti dell’entourage di Trump con il Cremlino. Ieri il direttore dell’Fbi, James Comey, ha fatto un briefing a porte chiuse ai vertici della commissione Giudiziaria al Senato e ha annunciato che lunedì riferirà pubblicamente alla commissione Intelligence della Camera, e allora forse si saprà se il Bureau ha aperto o meno un’inchiesta sulle comunicazioni con Mosca.

 

Nel frattempo il dipartimento di Giustizia ha incriminato due agenti dei servizi russi e due hacker legati a Mosca per la violazione di 500 milioni di account Yahoo, uno dei più grandi furti di dati della storia, che ha dato origine a un’iniziativa legale senza precedenti. Mentre il presidente volava verso il Tennessee, per un comizio in stile elettorale di quelli che galvanizzano il suo popolo e per una visita alla tomba dell’idolo populista Andrew Jackson, a Washington si parlava ancora delle tasse del presidente, mettendo in secondo piano anche la grande guerra repubblicana sulla legge che sostituirà l’Obamacare. La pubblicazione, da parte di Breitbart, dell’audio di Paul Ryan che durante la campagna dice “non difenderò Trump questa volta, né mai più” era un messaggio chiaro sul fatto che il testo presentato dallo Speaker è sgradito ai lealisti del presidente. L’ufficio budget del Congresso valuta che 24 milioni di americani perderanno la copertura assicurativa con questa riforma, e Trump aveva promesso sì la revoca dell’odiato Obamacare, ma è arrivato alla Casa Bianca offrendo protezione ai “forgotten men”, non la distruzione del sistema di welfare. Il senatore John Thune si è fatto portavoce presso la Casa Bianca della contrarietà di un blocco senatoriale, che chiede una riforma rimodellata per “aiutare di più gli ultimi”, e dalle parti di Trump ha trovato consensi e disponibilità. Cosa che inevitabilmente fa salire la tensione con Ryan, bersagliato ora da messaggi subliminali o espliciti che vengono dal cuore trumpiano della squadra repubblicana. Quando il disegno di legge arriverà al Congresso, probabilmente già la settimana prossima, i democratici voteranno contro compatti, il che significa che i repubblicani non possono permettersi defezioni. I numeri, specialmente al Senato, dicono che il margine per il dissenso interno è minimo. Mentre si parla della dichiarazione dei redditi, una guerra sotterranea sta salendo in superficie.

Di più su questi argomenti: