Donald Trump (foto LaPresse)

I populisti vanno sfidati in campo aperto, anche a costo di farli governare

Alberto Irace

Il panorama politico della Seconda Repubblica va incontro a profonde trasformazioni sull’onda del conflitto tra liberalismo e nazionalismi, tra società aperte e chiuse

Al direttore - Quasi si fossero coordinati tra di loro, quattro protagonisti, quelli autentici, della globalizzazione sono scesi in campo. Mark Zuckerberg con un vero e proprio saggio che, pur non disconoscendone i limiti, s’incarica di difendere le ragioni della globalizzazione, una presa di posizione politica; Mario Draghi ricordando che scelte come l’euro non sono facilmente reversibili e che l’economia globale sarà inevitabilmente integrata; Tony Blair chiedendo che gli inglesi tornino a pronunciarsi sulla Brexit dopo averne valutate “meglio” le conseguenze; Bill Gates proponendo la tassazione del lavoro dei robot: una sorta di redistribuzione dei profitti dell’automazione. Interventi che segnalano cosa sia veramente in discussione.

 

Il conflitto tra società aperte e protezionismo, visioni nazionali e sovranazionali, libera circolazione delle persone e muri, libertà di iniziativa economica e ruolo degli Stati nelle economie e così via. In altri termini, il confronto è tra chi cerca soluzioni a problemi globali dentro la propria nazione anche a costo di alzare qualche ponte levatoio e chi continua a pensare che soluzioni comuni e libertà di commercio continueranno a garantire prosperità e benessere. Quasi 1,5 miliardi di persone hanno varcato le frontiere nazionali nel 2016. Nel 2014 sono stati commerciati nel mondo beni per 19 trilioni di dollari e servizi per 5 trilioni di dollari. Quasi tutte le parti del mondo si valgono di tessuti prodotti in Asia. Le città denominate “global cities” per la loro integrazione economica e culturale sono ormai ottantaquattro. Questi sono esempi che, ricorda Sabino Cassese, ci parlano delle crescenti interdipendenze in un mondo che pure diventa sempre più affollato in termini di abitanti. Gli elementi a favore di questo mondo interdipendente sono molti e vari. A cominciare dal miglioramento che ha coinvolto la vita di centinaia di milioni di individui in termini di reddito, di consumi, di speranza di vita. Guai a tacere della durezza e dei rischi di questo straordinario processo. E tuttavia affrontare gli effetti negativi della globalizzazione optando per il protezionismo, la chiusura, la costruzione di barriere che portano con sé danni certi allo sviluppo impedendo scambi commerciali o investimenti esteri sarebbe una strada sbagliata che accentuerebbe povertà e diseguaglianze. I rischi che a prevalere siano le tendenze alla chiusura sono forti.

 

Se il primo ministro britannico, Theresa May, giunge a denigrare l’idea di cittadinanza globale affermando che “se credi di essere un cittadino del mondo, non sei un cittadino di alcun posto”, il rischio di una svolta illiberale come ha scritto l’Economist, è reale. Ciò appare evidente dopo il referendum sull’uscita dell’UK dall’Unione Europea e l’inaspettata vittoria di Donald Trump alle elezioni americane. Eventi che, visti insieme, ci dicono che è in discussione l’ordine liberale e democratico che ha governato il mondo dopo la seconda guerra mondiale e che si è imposto col massimo dei benefici nell’era post ideologica del dopo ’89. La globalizzazione dell’economia esplosa negli anni novanta ha portato benefici a miliardi di persone estendendo aree di ricchezza, di cultura, di libertà. La velocità con cui grazie ad internet ed alla tecnologia, a cominciare dalla connettività mobile, si è esteso l’accesso alle informazioni, alla cultura, allo scambio di opinioni e informazioni non ha precedenti nella storia!

 

Questa lunga fase si è retta sull’idea che l’interesse degli Stati Uniti e dell’Europa coincidesse con l’espandersi della democrazia e della libertà di scambiarsi merci, prodotti, e di lasciare circolare idee e persone sempre più liberamente. Fin da Thomas Woodrow Wilson e sempre più nella lunga stagione dopo il 1945 questa è stata la direttrice che ha orientato ininterrottamente la più grande democrazia e potenza al mondo. Si sono espanse e affermate sempre più istituzioni sovranazionali, le Nazioni Unite, il Fondo Monetario, il WTO, la stessa Ue. E’ nato in questo modo un nuovo ordine internazionale e costituzionale che tuttavia, ecco il dilemma, rischia di ridurre gli Stati nazionali a entità amministrative dai fini limitati, è ancora Cassese a ricordarlo, fini stabiliti al di là dei confini nazionali e senza un controllo democratico non potendolo esercitare i cittadini. Come affrontare una tale sfida? Occorre lavorare per una dimensione internazionale caratterizzata non solo da regole, quelle del diritto internazionale in costante evoluzione, ma soprattutto da organismi, istituzioni, fori multilaterali in cui si tutelino sia gli interessi nazionali che i valori universali di civiltà e umanità. Questo significa rilanciare la strategia di una “global governance”.

 

In un tale quadro può procedere la civilizzazione della globalizzazione preservandone i benefici effetti e cercando di contenere le ripercussioni negative in campo sociale. Trump, la Brexit, Le Pen, Grillo, e la sinistra statalista sono, in fondo, contrari a tutto ciò! Non è affatto un caso che Bernie Sanders sostenga a tratti il rigurgito protezionista e nazionalista di Trump… In realtà, le categorie della sinistra e della destra non aiutano a capire. Spesso la sinistra, ostile al mercato e al profitto, si trova paradossalmente in consonanza con forze protezioniste contrarie al libero commercio, convinte che si venga fuori dai problemi costruendo muri. In realtà il compito dinanzi alla comunità internazionale resta quello di governare la globalizzazione. Le grandi democrazie hanno sufficienti anticorpi per ritrovare una strada di civiltà e progresso e c’è da aspettarsi che anche livello globale l’impianto liberale troverà rappresentanza politica e forme adeguate.

 

In fondo la richiesta di Blair di un nuovo referendum va esattamente in questa direzione: gli elettori vadano oltre la rabbia ed esercitino la responsabilità dell’esercizio democratico con piena consapevolezza. Le recenti prese di posizione dei manager delle imprese della Silicon Valley, contrarie a limitare la circolazione delle persone, lasciano prevedere che questi interessi saranno della partita. Attraverseremo probabilmente anni confusi prima che si riprenda un periodo di espansione democratica e di piena libertà economica. Nel breve periodo, infatti, negli Usa le politiche protezioniste e soprattutto l’annunciata riduzione della pressione fiscale sulle imprese potrebbe assicurare una ripresa economica nei confini nazionali rafforzando il consenso interno del neo presidente ed alimentando fuori dai confini la scorciatoia nazionalista e protezionista. Tuttavia, come ricorda nei suoi splendidi lavori Angus Deaton, premio Nobel, tra i massimi esperti di sviluppo economico e povertà, “il mondo è andato migliorando, la lista dei pericoli è lunga ma ci sono tutti i presupposti per credere che continuerà a migliorare”.

 

Anche l’Italia è investita da quest’onda ed il risultato referendario dello scorso dicembre andrebbe inquadrato e letto in questa fase. Paradigmatico il conflitto tra la corporazione dei tassisti che provano a fermare Uber. Appare fuori contesto che il principale partito italiano, il Pd, discuta del calendario delle prossime elezioni e al massimo di quello del congresso dividendosi al punto di valutare di scindersi. Le forze populiste e la destra, approfittando del mood generale a loro favorevole, sembrano solo concentrate a monetizzare la difficoltà incontrate dal governo guidato da Matteo Renzi che tra complessità ed ostacoli ha avviato riforme di cui ha vitalmente bisogno il nostro paese. L’Italia è esposta a rischi notevoli in un quadro internazionale che muta vertiginosamente.

 

Probabilmente il panorama politico della Seconda Repubblica va incontro a profonde trasformazioni sull’onda del conflitto tra liberalismo e nazionalismi, tra società aperte e chiuse. Non condivido l’idea di chi pensa di resistere all’onda delle forze populiste cercando marchingegni elettorali che ostacolino la possibilità per tali forze di giungere al governo. Queste forze, invece, dovrebbero misurarsi con la complessità e la durezza dei problemi, col governo ed essere giudicate per questo. Un simile approccio rischia di alimentare la narrazione delle elites che si difendono e resistono chiuse a riccio e finendo così col fornire argomenti e carburante alle posizioni demagogiche. Si finirebbe, peraltro, col tenere nella trappola delle coalizioni dei veti le forze riformiste. Per togliere ossigeno al populismo l’unico modo sono le riforme e la crescita. Lavorino per muovere in questa direzione le forze che si battono anche in Italia contro chiusure e protezionismi. Soprattutto si lavori a rendere chiaro agli elettori su cosa devono scegliere costruendo offerte politiche coerenti. Toccherà poi agli elettori decidere.

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