Kim Jong-nam (foto LaPresse)

Quanti passaporti asiatici circolano attorno al cadavere di Kim Jong-nam

Giulia Pompili

La rete nordcoreana, sempre la stessa dalla guerra fredda

Roma. Malaysia, Cina, Vietnam, Indonesia. La cosa più rilevante, per il momento, nell’indagine sull’omicidio del fratellastro del leader nordcoreano Kim Jong-nam, riguarda il numero di paesi e di passaporti coinvolti. La storia, così come ricostruita preliminarmente dalle autorità della Malaysia, parla di un uomo e due donne che attualmente sarebbero in stato di fermo (una di loro sarebbe quella ripresa dalle telecamere di sorveglianza dell’aeroporto che indossava una tshirt bianca con la scritta “LOL”). Ma che ci fanno una ragazza vietnamita e una indonesiana nel trafficatissimo scalo di Kuala Lumpur? Com’è possibile bloccare da dietro un uomo, spruzzargli uno spry e poi un panno avvelenato sulla bocca, ucciderlo nel mezzo di un terminal affollato e poi prendere un taxi fino all’Empire Hotel della capitale malay? Secondo l’intelligence sudcoreana, l’assassinio di Kim Jong-nam è stato ordinato direttamente da Pyongyang. E’ possibile che ci fosse da tempo una taglia sulla sua testa, e i cacciatori abbiano eseguito l’ordine al momento più opportuno. Questo, in effetti, sembra un momento opportuno: Thae Yong-ho, ex viceambasciatore a Londra, uno dei diplomatici nordcoreani più strategici, ha disertato. Secondo le sue parole “l’élite nordcoreana inizia a sentire la pressione dei giorni contati”.

 

 

Non solo: la Cina inizia a mostrare segni d’insofferenza nei confronti della Corea del nord, e non è un caso che l’omicidio sia avvenuto non a Macao, e nemmeno a Singapore, dove Kim Jong-nam passava la maggior parte del tempo, ma in Malaysia. C’è una percezione sbagliata, che si avverte soprattutto quando notizie come quella dell’omicidio di Kim Jong-nam aprono i telegiornali: si pensa alla Corea del nord come a un paese povero, incapace di progresso tecnologico e con un buffo leader al comando. Ma la verità è diversa: nel corso degli ultimi quarant’anni, Pyongyang ha formato una generazione di spie vecchio stile, dislocate pressoché ovunque. Una rete capillare di controllati e controllori che fanno riferimento all’agenzia spionistica centrale nordcoreana, proprio come era durante la Guerra fredda con l’Unione sovietica. I rapimenti ordinati dai Kim nei paesi stranieri, durante gli anni Ottanta e Novanta, servivano a insegnare lingua, usi e costumi dei paesi da sorvegliare, e per facilitare gli agenti quando assumevano una nuova identità. E’ per questo che in molti, guardando ai passaporti indonesiano e vietnamita delle due fermate, hanno pensato che potessero essere falsi: i nordcoreani sono maestri nell’arte della Humint, l’intelligence fatta di persone in carne e ossa. Del resto, in uno “State of Paranoia”, come lo chiama Paul French nell’omonimo libro del 2014, il ruolo dell’intelligence è cruciale per la sopravvivenza.

 

Quella interna serve a gestire e soffocare qualunque forma di protesta o di dissenso – secondo le testimonianze di alcuni rifugiati nordcoreani, i bambini già da piccoli crescono imparando che denunciare ogni frase ascoltata per strada o perfino in casa. L’intelligence all’estero, invece, contribuisce a fare gli interessi della Corea del nord sul mercato nero. In pratica qualunque nordcoreano venga mandato su territorio straniero per Pyongyang è una potenziale spia, che attraverso una altissima piramide di controllati e controllori riporta ogni cosa vista e sentita al proprio superiore. E’ il caso per esempio del cittadino nordcoreano Kim Su-Gwang, che faceva parte del World Food Programme di Roma e però lavorava anche per il Reconnaissance General Bureau, il centro di comando dei servizi segreti nordcoreani (espulso nel 2015). Così pure i ristoranti gestiti da nordcoreani all’estero: nel 2013 in Asia ce n’erano almeno 60 che fornivano 100 milioni di dollari l’anno a Pyongyang, ma anche molte informazioni, grazie ai report redatti dalle cameriere alla fine di ogni serata. Kim Hyon-hui nel 1986, a ventisette anni, fece esplodere il volo Korean Air 858. La sua copertura era quella di una donna giapponese, e aveva ricevuto un lungo training da un cittadino giapponese rapito anni prima. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.