Xi Jinping (foto LaPresse)

Tra proteste e media, la Cina lancia la sua offensiva anti Trump

Giulia Pompili

Il nuovo ruolo di Pechino nell’èra del disimpegno americano. L’influenza della propaganda sugli affari mondiali

Roma. C’erano duecento persone domenica scorsa alla manifestazione organizzata a Tokyo, nel quartiere di Shinjuku, per protestare contro i negazionisti del massacro di Nanchino. Duecento cittadini cinesi che vivono in Giappone e che non hanno preso bene la vicenda che riguarda una catena di hotel nipponica. Qualche settimana fa sui social network era iniziata a girare la testimonianza di alcune ragazze cinesi che, in vacanza in Giappone, avevano soggiornato in una struttura della Apa Group e avevano pubblicato online il proprio disappunto. La catena, infatti, in ogni stanza dei suoi quattrocento alberghi, lascia una copia del libro scritto dal presidente Toshio Motoya – un volume firmato con lo pseudonimo di Seiji Fuji – nel quale si negano le atrocità di guerra perpetrate dall’esercito imperiale giapponese tra il dicembre del 1937 e il gennaio del 1938 durante l’occupazione. Non proprio un tema di stringente attualità, visto che da anni Tokyo e Pechino litigano sul riconoscimento o no del “massacro di Nanchino” – si litiga anche sul numero dei morti – ma la notevole copertura mediatica che ha avuto nei giorni scorsi una manifestazione di duecento persone, nel centro della capitale giapponese, funziona da termometro. Serve per misurare l’influenza che la propaganda cinese sta avendo sugli affari del mondo (per esempio, è più difficile trovare notizia della marcia anticinese che c’è stata in Vietnam il 19 gennaio scorso).

 

Il nuovo ruolo della Cina nell’èra del disimpegno americano, ruolo che è stato inaugurato con il discorso del presidente Xi Jinping tra le grandi economie del mondo riunite a Davos, sta mostrando sempre di più il suo cotè internazionale. E lo dimostra il fatto che una disputa che torna periodicamente sulle colonne cinesi, e un tempo derubricata agli “affari asiatici”, come quella su Nanchino oggi diventa una delle principali notizie del continente asiatico. Ma il tentativo della Cina di superare i confini del Pacifico si avverte non soltanto quando cerca di vincere la guerra mediatica contro gli alleati giapponesi e sudcoreani (colpevoli di aver assicurato al segretario alla Difesa James Mattis il dislocamento del sistema antimissilistico Thaad), ma anche quando tenta di avvicinarsi al movimento, diventato ormai internazionale, di protesta contro il presidente americano Donald Trump.

Domenica scorsa il giudice della Corte suprema cinese, He Fan, in un post sul suo blog, ha definito Trump  un “nemico della stato di diritto”. Lo ha fatto commentando i twitt che il presidente aveva riservato al giudice americano James L. Robart, “il cosiddetto giudice” che qualche giorno fa ha di fatto bloccato l’ordine esecutivo presidenziale che impediva l’ingresso in America ai cittadini di alcuni paesi a maggioranza musulmana. Il giudice He ha scritto: “Anche se hai il controllo delle Forze armate e delle armi nucleari, la tua dignità è ormai stata spazzata via e non sei molto diverso da un delinquente”. Michael Forsythe ha spiegato sul New York Times che He Fan, nonostante le linee di principio del partito che governa a Pechino, è un ammiratore del sistema giuridico americano, e il suo blog è seguito anche Oltreoceano. L’aspetto più interessante della critica è soprattutto il fatto che venga dalla Cina – la principale indiziata quando si parla di violare lo stato di diritto, basti pensare alle attività nel Mar cinese meridionale, già sanzionate dal tribunale di arbitrato internazionale dell’Aia. 

 

Pechino si sta muovendo anche con la corazzata diplomatica: durante una conferenza stampa con l’omologo australiano, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha commentato le frasi di Steve Bannon su una “praticamente certa” guerra tra Washington e Pechino nel Pacifico: “Qualunque politico assennato riconoscerebbe che non ci può essere un conflitto tra Cina e Stati Uniti, perché entrambi i paesi perderebbero, ed entrambi non potrebbero permetterselo”. Una lezione di understatement. Intanto Trump ha telefonato praticamente a tutti i capi di stato del mondo, ma manca ancora Xi Jinping.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.