Theresa May e Donald Trump lo scorso 27 gennaio durante la visita del premier britannico alla Casa Bianca (foto LaPresse)

Il costo di non fare nulla

Paola Peduzzi

Contro l’isolazionismo impulsivo e il pacifismo sconsiderato. Ecco il paper postumo dell’inglese Jo Cox sull’interventismo umanitario (con una noticina di Petraeus)

Il paper su cui Jo Cox stava lavorando quando è stata uccisa è stato infine pubblicato da Policy Exchange in questi giorni: è un colpo al cuore per un certo mondo liberale che si guarda intorno smarrito, e non soltanto perché Jo Cox nel frattempo è morta, uccisa da un giardiniere alto, magro e simpatizzante del nazismo che ha gridato “Britain First” mentre la colpiva, con una pistola e un coltello, molte volte, tre spari e quindici coltellate, e la lasciava in una pozza di sangue per strada. L’uccisione della parlamentare laburista inglese – aveva poco più di quarant’anni, due figli, un marito, una casa-barca sul Tamigi, la passione negli occhi e nella voce – avvenne a una settimana dal referendum sulla Brexit, fu strumentalizzato in modo becero nella rissa in corso, politica e ideologica: poi vinse l’uscita del Regno Unito dall’Ue e gli occhi si spostarono altrove, almeno non si sentì più il sottofondo spettrale di infime dietrologie. L’assassino di Jo Cox, Thomas Meir, è stato condannato a novembre all’ergastolo per omicidio premeditato motivato da odio politico: la prima volta in aula, Meir si rifiutò di dire alla corte il suo nome, dichiarò soltanto: “Morte ai traditori, Gran Bretagna libera”.

 

Il lavoro che Jo Cox aveva iniziato assieme al Policy Exchange è stato portato avanti da un altro parlamentare, Tom Tugendhat, un conservatore che ha fatto il soldato in Afghanistan e in Iraq, e che aveva trovato un’intesa con la Cox su uno dei temi che più scuotevano e scuotono l’opinione pubblica inglese e occidentale: il costo del non fare niente in politica estera, del non intervenire, del lasciare che gli attori locali se la cavino da soli o, al più, come è accaduto, che arrivino altri interlocutori a riempire il vuoto lasciato dall’occidente. “Anche se abbiamo avuto storie molto diverse – ha detto Tugendhat – entrambi siamo convinti che il mondo possa essere migliore nel momento in cui il Regno Unito si impegna in operazioni volte a proteggere le vite di civili in altri paesi”.

 

L’iniziativa bipartisan sembra quasi indicibile oggi, nella polarizzazione assoluta di partiti e ideologie, ma ancora più risuona unica e solitaria la voce di questi parlamentari che insistono sulla necessità per il Regno Unito, e per l’occidente, di avere un ruolo attivo nel mondo. La settimana scorsa Theresa May, premier inglese, è andata in America per incontrare il presidente Donald Trump e rafforzare la “special relationship” in particolare nella sua connotazione commerciale, che è quella che al momento al Regno Unito interessa di più per garantire la tenuta della Brexit (lo ha anche invitato a Londra per incontrare la regina, che lui stima tantissimo, ma la visita è già in forse perché sono state raccolte un milione e settecentomila firme per una petizione cancella-visita, 70 parlamentari vogliono mettere il divieto a Trump di tenere un discorso in Parlamento e la regina stessa pare che non abbia poi tutta questa voglia di incontrarlo). La sera prima di vedere Trump a Washington, la May è andata al ritiro dei repubblicani a Philadelphia, e ha tenuto un discorso importante sul rapporto tra Regno Unito e Stati Uniti e sul ruolo della loro relazione speciale nel mondo. Un punto in particolare risulta rilevante: “E’ nel nostro interesse, della Gran Bretagna e dell’America assieme, unirci e difendere i nostri valori, i nostri interessi e le idee in cui crediamo”.

 

Questo però “non significa un ritorno alle politiche fallite del passato. Sono finiti i tempi in cui il Regno Unito e l’America intervenivano in altri paesi sovrani per rifare il mondo a loro immagine e somiglianza”. Questo non vuol dire stare fermi, ma “dobbiamo dimostrare che ci uniamo in nome dei nostri interessi”. La vocazione liberale e interventista era già in crisi da tempo, ma la “special relationship” ora ritorna nell’alveo del realismo tradizionale, con la possibilità di deviazioni ignote dovute all’imprevedibilità del presidente Trump. Il paper su cui lavorava Jo Cox – e che è stato portato a termine da Tugendhat, dalla parlamentare laburista Alison McGovern e dal professore del King’s College John Bew – è stato presentato a Londra, poco prima che la May parlasse a Philadelphia, dall’ex premier laburista Gordon Brown con un intervento dell’ex ministro degli Esteri conservatore William Hague. In realtà il documento doveva essere pubblicato il 6 luglio dello scorso anno, lo stesso giorno dell’uscita del report Chilcot, il resoconto sull’operato del governo di Tony Blair in Iraq. Uscì soltanto quest’ultimo, un atto d’accusa nei confronti dell’ex premier laburista ma una delusione per chi sperava che ci potessero essere conseguenze legali nei confronti di Blair.

 

Ora è stato completato anche lo studio del Policy Exchange, che è virtualmente una risposta a Chilcot e all’accusa di “aver agito in modo sproporzionato” e che s’intitola: “The cost of doing nothing”, il costo di non fare nulla. La guerra in Iraq è ancora una ferita molto profonda nell’opinione pubblica occidentale, e non è un caso che il paper del Policy Exchange inizi proprio da quel punto preciso (una nota: c’è scritto Regno Unito ma vale per tutto l’occidente): “Sulla scia della guerra in Iraq, un nuovo consenso anti interventista è emerso in molti segmenti dei partiti politici e dei media. (…) Si tratta di un revival di idee già ben presenti mischiate a un senso di debolezza e ai dubbi sul ruolo del Regno Unito nel mondo. Mette insieme compagni di viaggio strani, dai membri dell’Ukip fino alla Stop the War Coalition, e negando al Regno Unito la capacità di modellare gli eventi fuori dai propri confini, questa strana coalizione porta a conseguenze pericolose per la nostra sicurezza e per quella dei cittadini del resto del mondo”. In seguito alla guerra in Iraq, come reazione, si sono imposti “un isolazionismo impulsivo, un pacifismo sconsiderato e un anti interventismo”. Gli autori sostengono che gli interventi all’estero sono stati “una parte irriducibile della politica estera e di sicurezza nazionale del Regno Unito per duecento anni”, e che certo le guerre in Afghanistan e in Iraq hanno insegnato molte cose e gli errori e le lezioni che ne sono conseguite non devono in alcun modo essere ignorati, ma “un ritiro dall’esercizio di un ruolo proattivo negli affari globali aumenta il rischio di una futura instabilità mondiale”.

 

Il costo di non fare nulla non è soltanto la morte di centinaia di migliaia di persone, che sarebbe già una motivazione sufficiente per non perdersi nell’inazione, ma anche una continua, incontrollabile destabilizzazione: l’isolazionismo non rende più sicuri, al contrario. Nelle trentadue pagine del paper di Policy Exchange si parla della no-fly-zone in Iraq nel 1991 per proteggere i curdi da Saddam Hussein, del Ruanda, di Srebrenica, del Kosovo, della Sierra Leone e di quel che è accaduto quando si è atteso molto a intervenire, il costo del non fare nulla appunto, fino alla Siria di oggi, che è il paese in cui tutte le tendenze anti interventiste si sono unite insieme, lasciando abbandonati i siriani. “Abbiamo entrambi visitato campi profughi – ha scritto l’ex soldato Tugendhat parlando del suo lavoro assieme a Jo Cox, che prima di entrare in Parlamento si occupava di aiuti umanitari e rifugiati di guerra – ed entrambi conosciamo le storie di violenza di molte vittime.

 

Ma insieme abbiamo anche visto la leadership britannica unirsi in coalizioni per fornire aiuti umanitari e anche, in alcuni casi, per garantire interventi militari e portare cambiamenti nella vita delle persone. Entrambi crediamo nell’impegno che s’è preso il Regno Unito e molte altri nazioni nel 2005 all’Onu – la responsabilità di proteggere”. L’isolazionismo non rende più sicuri e non è nemmeno senza conseguenze. In uno dei suoi pochi interventi parlamentari – era stata eletta ai Comuni l’anno prima di essere uccisa – Jo Cox aveva spiegato con i numeri e con una ricostruzione esatta delle cause e degli effetti come il non intervento in Siria avesse dato la possibilità al rais Assad di diventare via via più brutale contro i siriani. Oggi Tugendhat aggiunge che “le tragedie umane nel medio oriente hanno ripercussioni a casa nostra: che noi decidiamo di intervenire o no, siamo parte di un mondo globalizzato dove i confini confusi e la velocità delle comunicazioni rendono la distanza un concetto relativo. Jo e io eravamo d’accordo nel dire che o diamo noi una forma agli eventi, o saranno gli eventi a dare una forma a noi”.

 

Ieri David Petraeus, il generale-antropologo americano ex direttore della Cia caduto in disgrazia per un’amante, ha parlato alla commissione Servizi armati della Camera di minacce internazionali e nuove leadership: “Gli americani non dovrebbero dare per scontato l’ordine attuale del mondo – ha detto – Questo ordine non si dà da solo la sopravvivenza. Siamo noi che l’abbiamo creato. Non è per sua natura autosufficiente. Lo sosteniamo noi. Se smettiamo di farlo, questo ordine si logorerà e alla fine collasserà. Ed è esattamente questo che molti nostri nemici si augurano. Il presidente russo Putin, per esempio, comprende bene che, se anche un’aggressione convenzionale può permettere alla Russia di strappare un pezzo di terra ai suoi confini, il centro di gravità reale è la volontà dei poteri democratici di difendere istituzioni euro-americane come la Nato e l’Unione europea. Ecco perché la Russia sta lavorando così tenacemente per instillare il dubbio sulla legittimità delle nostre istituzioni e dell’intero stile di vita democratico”.

 

Gli accordi internazionali hanno un prezzo e dei vantaggi, è necessario fare bene i calcoli, dice Petraeus, senza perdere di vista che l’obiettivo finale è il mantenimento di questo ordine. Se non ci si investe, se non si è proattivi, crollerà. Il marito di Jo Cox ha raccontato che un giorno era a casa e stava mettendo in ordine nell’ufficio di sua moglie e ha trovato le bozze su cui stava lavorando assieme a Tugendhat. C’erano annotazioni, riferimenti, e quattro parole sottolineate: “Britain must lead again”. L’attuale leader del partito di Jo Cox, il capo del Labour Jeremy Corbyn, è stato confermato nel suo ruolo con un programma che prevede “la fine del sostegno alle guerra aggressive di intervento”. L’attuale leader del paese di Jo Cox, Theresa May, ha appena specificato che non si interverrà più per ragioni umanitarie. Così continua a crescere il costo di non fare nulla.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi