Una manifestazione anti-Trump (Foto LaPresse)

Trump applica norme volute da Obama? Non proprio

Giulia Pompili

Un’analisi comparata con i provvedimenti della precedente amministrazione, le differenze legislative e i torti di chi strumentalizza 

Roma. L’ordine esecutivo firmato sabato scorso dal neopresidente americano Donald Trump, quello sul divieto d’immigrazione da alcuni paesi a maggioranza musulmana, ha avuto come prima diretta conseguenza un caos procedurale negli aeroporti e nelle ambasciate. A una settimana dal suo insediamento, Trump è mosso dalla volontà politica di dare un effettivo riscontro alle promesse fatte in campagna elettorale, spesso “improvvisando” (significa scrivere un ordine esecutivo senza consultare le agenzie competenti) e con risultati definiti da tutti, anche dai fedelissimi sostenitori, piuttosto “disordinati e confusi”.

 

“Al fine di proteggere gli americani”, si legge nell’ordine esecutivo (che ha forza di legge ed è immediatamente applicato) “gli stati membri devono garantire che gli ingressi in questo paese non abbiano atteggiamenti ostili verso di esso e nei confronti dei suoi principi fondamentali”. Nel decreto si sospende per 120 giorni l’accoglienza dei cittadini siriani che fanno domanda di asilo, e per 90 giorni i cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana che hanno problemi di terrorismo – Iraq, Siria, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen – non potranno entrare in America. Il problema fondamentale è legato alla confusione, perfino letterale, con cui è stato licenziato il provvedimento. Un esempio su tutti: sabato la portavoce del dipartimento della Sicurezza interna, Gillian Christensen, aveva detto a Reuters che il divieto d’ingresso avrebbe riguardato anche i possessori del permesso di residenza permanente, la green card (secondo i calcoli di ProPublica, circa 500 mila persone provenienti dai sette paesi sulla lista nera sarebbero possessori di una green card, e quindi avrebbero già diritto di vivere e lavorare negli Stati Uniti). Ventiquattro ore dopo, il dipartimento ha cambiato linea: il divieto non si applica ai possessori di green card, e John Kelly, segretario alla Sicurezza interna, ha parlato di “interesse nazionale” per quanto riguarda gli stranieri legalmente residenti.

 

Nel pieno della confusione tra aeroporti e ambasciate, l’altra notte, in una dichiarazione ufficiale il presidente Trump ha scritto che il decreto sta funzionando “molto bene” e che “la mia politica è simile a quella del presidente Obama quando nel 2011 vietò i visti ai rifugiati dall’Iraq per sei mesi”. Questa, più o meno, è anche l’argomentazione di chi sostiene la bontà dell’ordine esecutivo di Trump: se c’è qualcosa di sbagliato nelle politiche di immigrazione, va imputato a Obama e non all’attuale presidente. In un articolo sul Washington Post, Glenn Kessler ha spiegato perché le due cose sono diverse e perché abbiano avuto un’eco mediatica diversa. Nel 2011 Obama rallentò fino quasi a fermare, per sei mesi, le richieste di asilo dall’Iraq. Accadde dopo quello che viene chiamato il Kentucky case, cioè quando l’Fbi scoprì una cellula terroristica guidata dal trentenne Waad Ramadan Alwan, che aveva organizzato e finanziato alcuni attacchi contro le truppe americane in Iraq, anche dopo aver richiesto asilo agli Stati Uniti. Non fu facile gestire la situazione nemmeno allora: per motivi di sicurezza l’Amministrazione ordinò al National Visa Center del dipartimento di stato di  “rallentare” i nuovi ingressi dall’Iraq, e di ricontrollare tutti i cittadini iracheni che avevano già ricevuto un visto. “Nessuno, all’epoca, parlò di un divieto”, scrive Kessler, perché effettivamente non ci fu un divieto assoluto – tanto meno un ordine esecutivo – ma solo un rallentamento delle procedure, dovuto a una “minaccia concreta” (che nell’ordine esecutivo di Trump non viene esplicitata).

 

Se qualcosa deve essere riferita alla precedente Amministrazione Obama, è semmai la lista dei sette paesi musulmani a cui fa riferimento l’ordine esecutivo di Trump. Dopo gli attacchi di Parigi del novembre del 2015, il Congresso e la Casa Bianca si interrogarono sugli atti concreti possibili per prevenire il terrorismo di matrice islamica su suolo americano. Per questo, nel dicembre del 2015, fu approvata una legge che modificava il programma di esenzione dei visti, legge implementata poco meno di un anno fa. Da allora chi ha una doppia cittadinanza o ha viaggiato in alcuni specifici paesi deve essere sottoposto a “maggiori controlli” prima di entrare in America – nel 2015 riguardava solo Iraq, Siria, Iran e Sudan, lo scorso anno sono stati aggiunti Libia, Somalia e Yemen. La ratio della legge, che è ancora in vigore, riguarda soprattutto i novanta giorni di visto turistico che si concedono a chi possiede il passaporto di 38 paesi nel mondo, e ha ben poco a che fare con il pasticciato ordine esecutivo di Trump, che ha utilizzato la lista approvata dal Congresso nel 2015-2016 in modo strumentale: la differenza sta tutta nella parola “ban”, divieto, che il presidente continua a usare soprattutto su Twitter. 

 

“Molti sostenitori e oppositori dell’ordine esecutivo del presidente Trump stanno confondendo i termini ‘immigrato’ (che comprende i possessori di green card), ‘non immigrati’ e ‘rifugiato’”, ha scritto ieri Justin Amash, membro del Congresso e uno dei repubblicani ad aver criticato per primo la presidenza Trump: “Non è legale vietare l’ingresso a un immigrato in base alla ‘nazionalità, il luogo di nascita, o il luogo di residenza’. Una disposizione che viene da una legge del 1965 che limita la legge del 1952 – quella citata dal presidente”. Eppure, spiega Amash: “È lecito vietare l’ingresso ai non-immigrati per un qualunque motivo. Sono coloro che visitano il paese temporaneamente, come studenti o turisti. Ed è lecito vietare l’accoglienza ai rifugiati per qualsiasi motivo. Ma chiudere ai rifugiati di alcuni paesi è crudele e stupido. Dovremmo ancora accogliere, dopo i dovuti controlli. La comprensione di queste differenze è importante, perché i sostenitori di Trump continuano a insistere erroneamente che l’ordine è lecito, e che il presidente Obama ha fatto quasi la stessa cosa nel 2011. E gli oppositori di Trump continuano a insistere, a torto, che il divieto dell’accoglienza dei rifugiati violi la Costituzione o la legge”. Il problema, dice Amash, è che l’ordine esecutivo di Trump comprende tutti, rifugiati, immigrati e non immigrati. E la confusione genera mostri, non solo giuridici.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.