Donald Trump (foto LaPresse)

Non solo Messico. In America latina c'è chi tifa Trump

Maurizio Stefanini

Il muro, le polemiche sui dazi e sull’uscita dalla Nafta. Ma nel continente in molti apprezzano il nuovo presidente americano perché si sposa con un terzomondismo sognato per decenni

“Per la Colombia, Trump è un’opportunità”. Può apparire sorprendente quel che dice María Claudia Lacouture, ministro del Commercio nel governo di Juan Manuel Santos. Tra Messico e Stati Uniti la tensione è alle stelle dopo l’annullamento dell’incontro tra i presidenti Trump e Peña Nieto dopo la polemica sulla costruzione del muro al confine e su chi dovrà pagarlo. E il ministero degli Esteri brasiliano ha espresso quello che sembrerebbe un punto di vista comune nella regione: “La maggioranza dei paesi dell’America latina mantiene stretti vincoli di amicizia con il popolo degli Stati Uniti, per questo il governo del Brasile ha accolto con preoccupazione l’idea di costruire un muro per separare nazioni sorelle del nostro continente senza che vi sia consenso tra di loro”. Ma a Punta Cana, nella Repubblica Dominicana, il quinto vertice della Celac, la Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici, si è concluso con una dichiarazione piuttosto timida, che si limita a condannare genericamente “la criminalizzazione dell’emigrazione irregolare” senza neanche menzionare il muro.

Non solo, dopo decenni di retorica sulla necessità per l’America latina di recidere i rapporti con “l’imperialismo yankee”, sembra quasi spiazzante il fatto che ora sia invece “l’imperialismo yankee” a voler interrompere i rapporti con l’America latina. Il ministro Lacotoure confessa che qualcuno al sud del Rio Grande pensa anche di poterci guadagnare dal generale rimescolamento. La Colombia, ha spiegato in un’intervista, ha ben 136 prodotti che avrebbero vantaggi comparativi importanti se esportati negli Stati Uniti, anche rispetto a Cina e Messico. Ma in questo momento, grazie agli accordi commerciali esistenti, sono invece i prodotti messicani e cinesi a entrare negli Stati Uniti, dove l’export colombiano di beni e servizi non oltrepassa lo 0,8 per cento del totale. Nella peggiore delle ipotesi, argomenta Lacotoure, la Colombia non sarà così penalizzata dal protezionismo di Trump, anzi. E’ piuttosto probabile che possa guadagnarci imponendo qualche prodotto in più nel mercato americano. Procolombia, l’ente che promuove le esportazioni, si sta già muovendo presso 800 imprenditori statunitensi per convincerli ad acquistare in Colombia quel che adesso stanno prendendo in Messico, in Cina e in Giappone.
In America latina c’è quindi chi esulta proprio perché Trump sta seguendo un’agenda politica ed economica che il terzomondismo aveva sempre sognato. Dopo il presidente venezuelano Maduro secondo cui “Trump non potrà essere peggio di Obama”, adesso c’è anche il boliviano Evo Morales secondo cui “Brexit e il protezionismo di Trump hanno seppellito quella globalizzazione che era solo servita a provocare crisi economiche, climatiche e alimentari in tutto il mondo”. Da qui il suo appello ai “fratelli messicani” a non prendersela troppo e, piuttosto, a “guardare al Sud” per “costruire assieme l’unità sulla base della nostra identità latino-americana e caraibica”.

Al fronte di Morales e Maduro fa da contraltare l’alleato Raúl Castro, che teme invece la fine del disgelo con Cuba deciso da Obama. Ma proprio per la stessa ragione le Damas de Blanco de Cuba fanno il tifo per Trump. Secondo loro è lui “il tallone di Achille che mancava ai Castro” mentre la politica di Obama era solo servita a dare il via libera a Raúl per intensificare la repressione, portandola a livelli record: le 9.351 detenzioni arbitrarie nel 2016 sono quasi 1.000 in più che nel 2015. E c’è anche a chi Trump piace senza motivazioni particolari. Una recente indagine Ipsos rileva per esempio che il Perù è il paese dove Trump ha la quinta miglior immagine al mondo, con il 44 per cento di estimatori, contro il 74 per cento dei russi, il 65 degli indiani, il 52 degli statunitensi e, questo sì piuttosto a sorpresa, anche il 46 per cento dei cinesi.

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