ll muro tra Messico e Usa (Foto LaPresse)

Il Messico ha una carta per ricattare Trump: la sua stabilità

Eugenio Cau

Il presidente americano fa il bullo con i suoi "vicini", ma una crisi che destabilizzi il paese può far male all’America

Roma. Il terribile dazio doganale del 20 per cento su tutte le merci esportate dal Messico negli Stati Uniti per pagare il muro di confine, misura punitiva che avrebbe stroncato l’economia messicana e messo in affanno quella statunitense, alla fine non era tale. Il magazine New York, giornale non vicino all’Amministrazione Trump, è arrivato a parlare di una “fake news” montata dai media, spinto dalla foga con cui la bomba sganciata dal portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, è stata ridimensionata da tutto lo staff presidenziale e infine da Trump stesso.

 

Il fatto che l’Amministrazione sia sembrata possibilista sull’ipotesi, tuttavia, ha portato il Messico oltre il “limite di sopportazione”, come ha detto ieri il membro più trumpiano del governo messicano, il ministro degli Esteri Luis Videgaray, e ha dato un assaggio della tragedia – economica, storica, politica – che si prepara a sud del confine americano, specchio della tragedia personale del presidente Enrique Peña Nieto. Salito al potere nel 2012 invocando il “momento del Messico” e dando una sferzata d’ottimismo a investitori e imprese, Peña si trova oggi a presiedere il peggior periodo nelle relazioni con gli Stati Uniti dai tempi in cui Pancho Villa cavalcava al di qua del Rio Grande.

 

Sfidando un tasso di popolarità a cifra singola e mai così basso nella storia del Messico, Peña ha tentato in ogni modo di costruire un rapporto con Donald Trump. Fin da prima delle elezioni, quando l’invito in Messico dell’allora candidato repubblicano gli costò la condanna di tutto l’arco politico, e poi nei mesi dopo il voto, passati a sopportare gli insulti di The Donald al suo paese e a vedere come l’immagine di un Messico vincente e dinamico che tanto aveva faticato a costruire fosse picconata a colpi di tweet.

 

L’incontro previsto per martedì – che Peña ha annullato dopo l’ennesima tweetstorm trumpiana – era diventato l’ultima ferita: l’idea del presidente accolto come un questuante dall’odiato Trump faceva arrabbiare i messicani come non mai, e ha contribuito all’inabissamento continuo del tasso di gradimento di Peña. Alla fine, gli insulti trumpiani che hanno portato all’annullamento dell’incontro sono stati accolti quasi con un sospiro di sollievo, e ieri i due presidenti hanno fatto una telefonata solo apparentemente pacificatrice. La ragione di tanta sopportazione – lo sa Peña, lo sa Trump, lo sanno i messicani – è che è quasi impossibile che il Messico esca intero, non diciamo vincitore, da una crisi profonda con il suo vicino del nord.

 

Gli effetti economici della presidenza Trump hanno già iniziato a farsi sentire (peso ai minimi, crescita del pil rallentata, aziende americane che promettono di non aprire fabbriche già annunciate, aumento del prezzo della benzina a causa della cattiva congiuntura economica), ma a questo il Messico può resistere. Il discorso cambia se Trump dovesse decidere di applicare dazi simili a quelli paventati questa settimana, o di mettere in atto una qualche forma di punizione commerciale per rifarsi dei miliardi spesi nella costruzione del muro al confine. Gli economisti hanno notato che imporre dazi sulle esportazioni messicane significherebbe per l’America spararsi a un piede, perché aumenterebbero i prezzi dei beni per gli americani e perché dal commercio con il Messico dipendono sei milioni di posti di lavoro, ma significherebbe anche sparare nel cuore al Messico, vista la dipendenza quasi totale della sua economia da quella statunitense.

 

Peña ha poche armi a sua disposizione (tra queste: la cooperazione su immigrazione e criminalità organizzata), e Trump, come ha notato ieri il Wall Street Journal in un editoriale, fa il bullo con un’intera nazione come l’ha fatto con “little Marco” durante le primarie repubblicane. Il prezzo che potrebbe pagare per minacciare di distruggere l’economia messicana e infangare il suo presidente, tuttavia, potrebbe essere molto più grave, e cioè la destabilizzazione di un paese dalle fondamenta già fragili. Gli storici sono concordi: una delle condizioni che hanno consentito di fare del Novecento il “secolo americano” è stata il fatto di avere frontiere sicure e due paesi stabili e tendenzialmente amichevoli a nord come a sud degli Stati Uniti.

 

Fuori dall’accademia, la firma del Wall Street Journal Bret Stephens, non una suffragetta liberal, solo sei mesi fa ricordava che “per gli americani avere il Messico come vicino e gli ispanici come nostri cittadini è una benedizione”. Il “limite di sopportazione” a cui Trump ha portato i messicani potrebbe significare una presa del potere da parte di forze populiste, o nel peggiore dei casi la disintegrazione di un assetto costituzionale che è pienamente democratico da meno di vent’anni. Trump, mentendo, dice che il Messico è un “failed state”. Senza un cambio di politica, potrebbe scoprire cosa significa condividere 3.200 chilometri di confine con uno stato fallito per davvero.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.