La marcia delle donne contro Trump a Washington (Foto LaPresse)

Per le femministe anti-Trump il rosa non è più un problema

Simonetta Sciandivasci

Le manifestazioni contro il neopresidente americano e il "pussyhat" cancellano anni di battaglie per eliminare gli stereotipi di genere

"Noi non torneremo tranquillamente agli anni Cinquanta", hanno detto, strillato, cantato centinaia di migliaia di donne, sabato scorso, mentre marciavano contro Trump, a Washington DC e in altre 671 città, chiedendo un'America "kind again" e "uguali diritti per tutti i generi" (con la G maiuscola) e "stop al razzismo". C'erano bambine a cui le mamme avevano infilato addosso magliette con su scritto "Sarò ingegnere", "Sarò CEO", "Sarò Diplomatica". E la San Francisco City Hall era illuminata di rosa e tutte e tutti avevano in testa un cappellino rosa tanto carino che si chiama "pussyhat" e che adesso è il simbolo, già feticcio, di questa nuova rivoluzione dove, secondo l'Huffington Post, "per la prima volta sono le donne a guidare e ad alzare il pugno"  (lo ha fatto Alicia Keys, struccata, mentre Madonna urlava "fuck, fuck, fuck" e poco altro).

Un'inondazione così rosa e così fosforescente non l'avremmo vista nemmeno durante un colpo di Stato della Mattel e di certo non la vedevamo proprio dagli anni Cinquanta, cioè da quando, più o meno arbitrariamente, il rosa prese ad essere "girly", a suggerire alle bambine che a loro era assegnata la cura del piccolo mondo antico tra culla e cucina, a colorare i loro abiti e i loro codici di comportamento.

 

Il rosa diventò uno dei primi bersagli della rivoluzione femminista degli anni Sessanta e Settanta, che tentò di ripristinare l’accesso, per le donne, all’archetipo femminile, così più delicato e vasto e potente di quella riduzione casalinga cui la storia lo avevo soggiogato, a spese del loro destino, omologandolo. Il rosa è stato il peggiore nemico delle gender theories che, negli ultimi anni, hanno insistito sull’idea che l’appartenenza sessuale fosse una sovrastruttura culturale, quindi smantellabile, dalla quale diseducare le nuove generazioni per far sì che, per una buona volta, il germe del sessismo venisse definitivamente estirpato.

 

“Il piano delle ragazze è tutto rosa e pieno di oggetti soffici, piatti, cucine”, scrisse qualche anno fa Laura Nelson (blogger, neuroscenziata), poiché era trasecolata alla vista della rigida divisione per sessi che vigeva ad Hamleys, il negozio di giocattoli più famoso di Londra, scatenando così una vera e propria campagna che portò il colosso a togliere le etichette “per bambino/per bambina” e disporre trattori telecomandati accanto a ferri da stiro e Barbie. Pertanto, secondo la lotta post femminista degli ultimi anni, il paradigma sessista (il maschio studia, guida, capeggia; la femmina s’imbelletta, spolvera, fa bambini), che pure era stato tramortito dalle battaglie femministe, ha perdurato soprattutto nella distrazione con cui abbiamo somministrato giocattoli, colori e attività sportivo-ricreative alle nuove generazioni. A dicembre scorso, in Inghilterra, la Football Association, per incentivare le ragazze al gioco del pallone, preparò un set di divise e accessori glitterati e molto rosa, scatenando  un putiferio che mostrò chiaramente quanto grottesca a paradossale è la lotta alla non differenza.

 

Melania Trump ha scelto, per il giorno dell’insediamento di suo marito alla Casa Bianca, un abito di un turchese identico a quello che nel Peter Pan della Disney indossava Wendy, sempre dimenticata nelle guerre che ultimamente hanno infervorato l’opinione pubblica contro le protagoniste femminili dei cartoni animati, accusate di incarnare subliminali inviti alla casalinghitudine e/o alla principessitudine. Alle donne in marcia, però, Melania non ispira niente: si lasciano bastare lo sguardo di commiserazione che le ha riservato Michelle Obama.

 

Melania non indosserebbe mai un cappello che riprende la vagina e il gatto, due ingredienti stregoneschi annacquati in quello stucchevole rosa che è piaciuto persino a Padre William R.Lugger, pastore del Michigan, che ieri ha celebrato con un pussyhat in testa (ma dev’essere stato un scherzo di qualche suora, lui non se n’era mica accorto) e che,  con un cambio di presidenza, ha abbandonato le spoglie del simbolico della sottomissione ed è finito a galvanizzare le donne che “erediteranno le terra”. Quelle che, parola di Aldo Cazzullo nel suo ultimo libro, “sono migliori di noi, per questo sono millenni che ci organizziamo per sottomettervi, spesso con il vostro volenteroso aiuto”. Un invalso aiuto tutto colorato di rosa. Di nuovo.  

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