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Che ne è dell'“uomo di Davos”? Dispacci pop con vista sul tramonto dei liberali

Giulia Pompili

Dal 1971 a oggi l’evento che celebra l’élite finanziaria del mondo è ospitata in una delle località sciistiche più esclusive del mondo, ma quest’anno gran parte della politica internazionale ha saltato il summit

Roma. Che il Forum economico avesse perso un po’ del suo appeal l’avremmo dovuto capire già dalla lista dei vincitori del Crystal Award, il premio che ogni anno viene consegnato ai volti noti dell’impegno sociale graditi all’establishment economico. Se lo scorso anno a salire sul palco di Davos era stata la star di Hollywood Leonardo DiCaprio, celebre per la sua battaglia contro i cambiamenti climatici, quest’anno l’élite del World Economic Forum si è dovuta accontentare della colombiana Shakira, simbolo della musica latina nazional popolare. Dal 1971 a oggi l’evento che celebra l’élite finanziaria del mondo è ospitata in una delle località sciistiche più esclusive del mondo, ma quest’anno gran parte della politica internazionale ha saltato il summit. Non ci sarà Angela Merkel, né Jean Claude Juncker, non ci sarà Shinzo Abe e nemmeno Justin Trudeau. Il red carpet dell’economia mondiale l’ha solcato però Xi Jinping, accolto come ospite d’onore pur essendo il presidente dell’ultima grande potenza comunista del mondo (nonché seconda economia globale). Ieri il presidente cinese ha pronunciato un discorso storico, presentandosi come l’ultimo bastione della globalizzazione e del libero mercato. Una contraddizione in termini, per un paese come la Cina dove economia, diritti civili, e libertà personali sono tutti elementi subordinati al progresso di Pechino. Ma che sia proprio Xi a difendere l’Uomo di Davos, oggi, dimostra lo stato di transizione e di cambiamento in cui si trova oggi l’ordine liberale occidentale, che non sa ancora bene dove collocarsi.

 

Il motore immobile delle quattro giornate di Davos è stato il grande assente, l’innominato presidente eletto Donald Trump. L’uomo antiélite che ha vinto in America grazie anche alla retorica sul protezionismo e cavalcando il declino dell’Uomo di Davos, ha scritto ieri Martin Wolf sul Financial Times. Wolf cita il politologo Samuel Huntington, padre dell’espressione “Davos Man”, che descriveva i “transnazionalisti” del World Economic Forum come persone che “hanno poco bisogno della lealtà nazionale, e considerano i confini nazionali come ostacoli che per fortuna stanno scomparendo, e vedono i governi nazionali come residui del passato la cui unica funzione utile è quella di facilitare le operazioni delle élite globali”. Cooperazione internazionale e globalizzazione erano le aspirazioni dell’Uomo di Davos, si domanda Wolf, “ma è ancora così?”. Pure Doris Leuthard, presidente della confederazione svizzera, ha detto ieri che “l’Unione europea, stabile per lungo tempo, sta affrontando adesso un cambiamento epocale”, e ha aggiunto che “nazionalismo e protezionismo stanno guadagnando consensi in molte regioni del mondo”. “I politici avrebbero dovuto prestare più attenzione a ciò che stava accadendo ai comuni cittadini, ma l’ingenuo populismo che sta crescendo potrebbe rivelarsi presto di gran lunga peggiore dell’arroganza delle élite di Davos”, ha scritto Wolf.

 

“Essere invitati a Davos voleva dire essere arrivati”, scriveva ieri Matthew Karnitschnig su Politico Europe, ma col passare del tempo è diventato “più che un forum di idee, come aspirava a essere, una cassa di risonanza, o un concentrato di stravaganze”. Già nel 2012 Nick Paumgarten sul New Yorker descriveva la chiusura di un vertice dove “banchieri centrali, industriali, titani degli hedge fund, cupi futurologi, astrofisici, monaci, rabbini, maghi della tecnica, curatori di musei, rettori di università, blogger finanziari, ereditieri” si trovano, si incontrano, parlano, e credono di rappresentare tutti l’Uomo di Davos: “Che potrebbe essere un tiranno capitalista tanto quanto un cospiratore comunista. In ogni caso è un chiacchierone, pedante e ipocrita”. La crisi non è caduta dal cielo, dunque, ma se perfino l’Uomo di Davos rinuncia a fare previsioni e a comprendere la realtà occidentale, tanto vale saltare la pur lussuosa Svizzera, e affidarsi al meno mediatico summit estivo che il World Economic Forum organizza ogni anno in Cina.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.