Jay Y. Lee

Samsung revolution

Giulia Pompili

La richiesta d’arresto per Jay Y. Lee è la fine dell’impunità dei chaebol. Mani pulite alla coreana

Roma. Lunedì i procuratori speciali di Seul hanno chiesto l’arresto di Lee Jae-yong, il Grande successore designato del mega-conglomerato Samsung, attualmente vicecapo della divisione elettronica. Lee, che è conosciuto anche con il nome di Jay Y. Lee, è accusato di corruzione per aver trasferito più di 36 milioni di dollari alle fondazioni di Choi soon-sil, la “consigliera” della presidente Park Geun-hye: secondo gli inquirenti, quei soldi servivano a Jay Lee per assicurarsi l’appoggio presidenziale nella corsa alla guida di Samsung. Il padre di Lee Jae-yong è Lee Kun-hee, attuale chairman dell’azienda coreana, uno degli uomini più ricchi del mondo, ma con un infarto alle spalle è da anni alla ricerca di un erede per il colosso coreano fondato a sua volta dal padre Lee Byung-chul – uno degli uomini più importanti dell’economia coreana – nel 1938. Cinque giorni fa, Jay Y. Lee era stato interrogato dagli investigatori per ventidue ore. Mai si era visto un trattamento simile per uno degli uomini più potenti del paese. I giudici del Comitato speciale incaricato di indagare sullo scandalo presidenziale decideranno domani sulla richiesta d’arresto di Lee, poi passeranno altri venti giorni per la sentenza.

 

La notizia di un uomo d’affari condannato per corruzione, di per sé, non sarebbe una novità in Corea del sud. Ma la svolta avvenuta lunedì ha delle implicazioni enormi sul sistema economico coreano ed è una svolta culturale nel paese. L’inchiesta sulla Samsung fa parte dell’indagine che ha portato alla sospensione della presidente Park Geun-hye, che è ancora in attesa del giudizio della Corte suprema sul suo impeachment. Park è accusata di aver lasciato che la sua amica Choi soon-sil, che non aveva nessun incarico presidenziale, avesse un accesso privilegiato nelle stanze del palazzo della presidenza, la Casa blu di Seul. Choi, tra le altre cose, avrebbe usato il suo ruolo di consigliera personale della presidente per fare pressioni sui chaebol, i grandi conglomerati coreani a conduzione familiare. Da loro avrebbe avuto cospicue “donazioni” direttamente nel portafogli delle sue due fondazioni. Da mesi lo scandalo presidenziale coinvolge milioni di coreani, che sono scesi in piazza e hanno potuto ottenere un processo di impeachment.

 

Parallelamente è cresciuta l’insoddisfazione nei confronti della classe politica e dei vecchi sistemi: è anche per questo che le autorità hanno perquisito più volte le sedi della Samsung, e ora che è in corso una sorta di “Mani pulite” alla coreana, i giudici sono autorizzati a colpire anche i pesci più grossi. Lee Kyu-cheol, portavoce del Consiglio speciale indipendente che investiga sui crimini legati allo scandalo-Choi, ha detto lunedì alla stampa che il Comitato ha preso la decisione di chiedere l’arresto di Lee “dopo lunghe e serie considerazioni. Siamo arrivati alla conclusione che la giustizia è più importante della situazione economica del paese”. Amnistie per presunti fuorilegge La Corea del sud era la patria delle amnistie per gli uomini d’affari.

 

Era una consuetudine che non faceva più scandalo, quella dei presidenti in carica di graziare i capi dei grandi conglomerati. La teoria era: il capo di un grande gruppo, anche se un farabutto, è più utile da libero che in carcere. Realpolitik applicata all’economia, che nel corso del tempo aveva garantito una sorta di immunità ai businessman. Il padre di Jay Y. Lee, Lee Kun-hee, aveva sfiorato l’arresto per due volte: nel 1996 era stato condannato per aver corrotto l’allora presidente Roh Tae-woo – pena sospesa. Nel 2008 Lee venne condannato per evasione fiscale, e arrivò perfino a dimettersi dalla dirigenza di Samsung.

 

Nel 2009 il presidente Lee Myung-bak decise di usare la grazia presidenziale per liberare dalla condanna il tycoon e “lasciarlo lavorare” alle Olimpiadi invernali di PyeongChang (quelle previste per il prossimo anno): subito prima della condanna, infatti, Lee era stato nominato presidente del Comitato olimpico coreano. Samsung agisce al di là della legge e del governo, dice un vecchio adagio che circola da sempre nel mondo degli affari coreani. E c’è una ragione: Samsung rappresenta quasi il venti per cento del prodotto interno lordo della Corea del sud, ed è il maggior esportatore del paese. Tutto ciò che succede alla Samsung ha un riflesso sull’economia nazionale, è anche per questo che lunedì Park Sang-in, docente di Economia all’Università di Seul, ha detto lunedì a Bloomberg che “se Lee fosse arrestato, danneggerebbe non solo la reputazione di Samsung ma quella dell’economia coreana in generale. Samsung rappresenta la nostra economia”. Con il caos del ritiro dal mercato del Galaxy Note7 (quello che prendeva fuoco, forse), il 2016 non era stato molto positivo per la Samsung Town di Seul. 

Di più su questi argomenti:
  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.