Donald Trump (foto LaPresse)

Trump visita l'arcinemico delle “dita corte” in cerca di un'opportunità

Il tormentone pop fra il tycoon e Graydon Carter

Donald Trump sa che non ci sono litigi troppo pesanti per non essere sanati e amicizie tanto strette da non essere rovinate con un litigio (che poi potrà essere sanato, e la storia ricomincia). Quante volte ha sputato fango su un avversario e poi è finito tutto a tarallucci e selfie, con lui che dice “tremendous” a ripetizione? Anna Wintour è una vecchia amica di Trump che ha lavorato con instancabile energia per l’elezione di Hillary Clinton. Poi un giorno che era su un treno ha insultato il presidente eletto, ha ruggito cose irripetibili sulla sua inutile fondazione e la logica del guadagno personale che anima ogni manovra trumpiana. Le è toccato andare alla Trump Tower a scusarsi, e in quell’occasione i due vecchi personaggi di mondo hanno organizzato l’incontro con i vertici di Condé Nast che è avvenuto ieri mattina alla Freedom Tower.

 

La cosa più importante è che a quel meeting c’era anche Graydon Carter, il direttore di Vanity Fair che senza soluzione di continuità dal 1988 lo prende in giro per via delle dita corte. Lo ha definito il “ciarlatano dalle dita corte” quando era direttore del giornale satirico Spy e poi ha traghettato l’epiteto nella direzione di Vanity Fair. La storia delle dita è diventata così una delle due cose che fanno imbestialire anche chi ha sempre negato l’esistenza della cattiva pubblicità. L’altra sono i giornalisti che lo descrivono come più povero di quel che dice di essere. Ancora oggi, di tanto in tanto, Carter riceve una busta della Trump Organization che contiene foto di Trump ritagliate dalla stampa, con le mani in evidenza cerchiate dallo stesso tycoon e un commento del tipo: vedi che non sono così piccole? Questo litigio cronico non ha impedito al direttore di Vanity Fair di essere invitato a due dei tre matrimoni di Trump, non ha impedito ai due di sguazzare felicemente negli stessi ambienti e di essere legittimati dagli stessi poteri, duellando su Twitter come adolescenti. Carter ha scritto che nella Trump Tower c’è “il peggior ristorante d’America”, l’interessato ha risposto con la solita tirata sulle disastrose performance della rivista: “Way down, big trouble, dead!”. Dell’avversario “senza talento” ha predetto la cacciata da Vanity Fair, una profezia che per il momento non si è avverata. Carter certo ricorderà quando Trump ha previsto il fallimento di Spy e di lì a qualche anno il giornale più irriverente di New York è andato gambe all’aria.

 

Il problema di questa ossessiva facezia delle dita corte è che a un certo punto è stata presa sul serio. Marco Rubio ha pensato di poterla usare per sconfiggerlo alle primarie repubblicane, ma in men che non si dica si è trovato cucita addosso la veste ridicola di “Little Marco” ed è stato polverizzato. Lezione: trasformare un tormentone pop in un manganello politico è pericoloso. La storia delle dita è svaporata, diventando un meme passeggero rimpiazzato da nuove e più inquietanti rivelazioni, e soltanto Carter ha continuato ad alimentare il filone che va avanti da una vita. E tutto sommato ha preso l’elezione del suo arcinemico con la leggerezza che ci si aspetta da chi da decenni guarda le dita invece delle lune. Ha scritto una lunga giustapposizione di paragrafi che iniziano ciascuno con “soltanto in America” per elencare gli orrori politici che possono succedere soltanto in questo paese. Conclusione: “Non venitemi a dire che questa non è la terra delle opportunità”. L’incontro di ieri altro non era che un’opportunità. 

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