Michael Gove (foto LaPresse)

Il manifesto per la Brexit liberale lo firma una vecchia conoscenza

Cristina Marconi

“Se stringeremo accordi con le economie in crescita del XXI secolo, creeremo centinaia di migliaia di lavori in tutto il paese, rafforzando le comunità in tutto il Regno Unito e assicurando che tutti sentano i benefici della crescita economica. Ma per realizzare questo, dobbiamo riprendere in mano e nostre politiche commerciali” dice Michael Gove

Londra. Non si esce dall’Unione europea solo per tornarsene caldi caldi nello statalismo compassionevole promesso dal premier inglese Theresa May. Ci si potrebbe anche fare business, con questa storia, diventare “un bastione del libero scambio”, creare 400 mila nuovi posti di lavoro, e tutto questo senza estendere i mercanteggiamenti con Bruxelles più del dovuto, anzi: uscire dall’unione doganale è il prerequisito per avere successo, secondo Change Britain, la “campagna per fare dell’uscita dalla Ue un successo”, sostenuta da Michael Gove, ex ministro del governo Cameron e capo-pugnalatore nella serie di intricati eventi che ha portato al ribaltamento politico del Regno Unito dell’estate scorsa. Dopo essere stato allontanato dalla cerchia di Theresa May, che non gli ha neppure dato un incarico per tenerlo buono come avvenuto con l’altrettanto insidioso Boris Johnson, Gove – politico un po’ nerd diventato famoso per la frase che ha catturato lo Zeitgeist 2016, non solo del Regno Unito, ossia che “il paese ne ha abbastanza degli esperti” – si sta dedicando alla difesa di una Brexit liberale, che non sia fatta di solo protezionismo e autarchia.

Da qui Change Britain, movimento che sulla base dei dati della Commissione europea spiega che se Regno Unito stringesse accordi commerciali con appena otto paesi potrebbe aumentare le sue esportazioni di 20 miliardi di sterline. “Il Regno Unito ha un futuro prospero davanti a sé se lascia l’unione doganale europea”, ha detto l’ex ministro della Giustizia. “Se stringeremo accordi con le economie in crescita del XXI secolo, creeremo centinaia di migliaia di lavori in tutto il paese, rafforzando le comunità in tutto il Regno Unito e assicurando che tutti sentano i benefici della crescita economica. Ma per realizzare questo, dobbiamo riprendere in mano e nostre politiche commerciali”. A più di sei mesi dal referendum e in mancanza di indicazioni forti da parte della premier May, che continua a descrivere la Brexit con toni assai vaghi, la guerra tra bande tra chi la fa facile e suggerisce di uscire senza tante cerimonie anche dal mercato interno – tra gli ultimi a farlo c’è stato Mervyn King, ex governatore della Banca d’Inghilterra – e chi sottolinea le enormi difficoltà pratiche che esistono sia sul piano interno sia su quelli europeo e internazionale si sta facendo via via più sanguinosa.

Gestire il dossier Brexit sta diventando impossibile, mentre l’ala euroscettica oltranzista dei tory continua a cavalcare il sentimento popolare che vede in qualunque obiezione tecnica i profili dell’alto tradimento. Proprio sui tempi necessari per stringere nuovi accordi commerciali si era espresso poco tempo fa Sir Ivan Rogers, che fino a ieri ricopriva la carica di ambasciatore britannico presso la Ue e che ieri se n’è andato in anticipo rispetto alla sua scadenza di novembre. Un nuovo accordo tra il Regno Unito e l’Unione europea, ad esempio, potrebbe aver bisogno di 10 anni per essere negoziato, secondo il diplomatico, che si è ritrovato sommerso dalle polemiche per le sue valutazioni. Nel bel libro di Tim Shipman sulla Brexit, “All Out War”, un consigliere di David Cameron racconta però che Rogers rappresenta lo “status quo” e che è uno che “accetta di sentirsi dire di no”, non certo il tipo di negoziatore di cui Theresa May ha bisogno. La stessa fonte anonima racconta di “aver perso il conto delle volte che Ivan ha minacciato di andarsene”, cosa che ora ha fatto a soli tre mesi da quello che dovrebbe essere l’inizio dei negoziati ufficiali per l’uscita dalla Ue, a marzo.

Ora la domanda è se abbia fatto un favore alla May a liberare il suo posto per darlo a un brexiter più motivato o se abbia privato Downing Street di un profondo, ancorché pessimista, conoscitore di cose comunitarie. Nigel Farage ha festeggiato, i moderati si sono impensieriti, il Foreign Office ha detto che un sostituto sarà nominato per tempo. Hilary Benn, che presiede la commissione parlamentare sulla Brexit, sostiene che “non potrebbe esserci momento più duro per un passaggio di consegne”. E’ vero pure che è stato lui l’uomo dietro alla disastrosa rinegoziazione della presenza del Regno Unito nella Ue di epoca cameroniana e che Theresa May, da ex ministro dell’Interno, conosce troppo Bruxelles per affidarsi a un falco spericolato e affrontare il negoziato con mano leggera. Rogers sarà stato troppo disfattista, però, come scrive Matthew D’Ancona, il problema resta: “E se avesse avuto ragione”? 

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