I funerali di alcune delle vittime dell'attentato ad Istanbul

E' un problema se la Turchia non parla con gli stati asiatici che forniscono incursori all'Isis

Giulia Pompili

Il Califfato ha concentrato gran parte della sua propaganda in Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Kazakistan. Dove secondo alcuni analisti il contesto sociale ed economico è ideale per arruolare adepti

Roma. Servirà ancora del tempo per conoscere l’identità (semmai verrà rivelata ufficialmente) dell’autore della strage al Reina di Istanbul del 1° gennaio scorso. Martedì sono circolate molte notizie, quasi tutte smentite. Per capire il livello di confusione delle informazioni, basti sapere che sui giornali (soprattutto turchi e italiani) si è parlato prima di un cinese appartenente all’etnia degli uiguri, minoranza musulmana turcofona che abita la regione dello Xinjiang. Poi si è diffusa sui social network l’immagine del passaporto di un cittadino kirghiso, Iakhe Mashrapov, che sarebbe stato identificato come il sospettato del “video selfie”diffuso dalla polizia turca e registrato probabilmente a piazza Taksim. Mashrapov è un uomo d’affari che vive nella provincia di Os, in Kirghizistan, e martedì è stato fermato dalle autorità all’aeroporto di Bishkek mentre tornava proprio da Istanbul per lavoro. Interrogato, è stato rilasciato poche ore dopo (così come sua moglie) anche perché la notte di Capodanno era in Kirghizistan, a casa sua. A restringere il campo di indagine delle autorità turche sono due dettagli su cui molti media si trovano d’accordo. Il primo riguarda la modalità d’attacco: Humeyra Pamuk e Daren Butler hanno scritto martedì su Reuters che l’attentatore sembra aver avuto un addestramento militare, e una loro fonte ha riferito: “Potrebbe aver combattuto in Siria per anni”.

 

L’altro dettaglio riguarda le origini centroasiatiche dell’attentatore. Sin dalla sua fondazione, lo Stato islamico ha dedicato molta della sua propaganda ai paesi centrali dell’Asia, Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Kazakistan. Il messaggio riguarda spesso i bambini, “i cuccioli del Califfato”: uno dei primi video di propaganda dell’Isis aveva come protagonisti giovani combattenti asiatici. Nel gennaio del 2015 è stato diffuso online un video particolarmente cruento, “Così i bambini kazachi uccidono i nemici dell’islam”, ma lo scorso anno la tattica della propaganda si è modificata, mostrando un lato più familiare e “rassicurante”. “Nei primi video”, ha scritto sul Diplomat Uran Botobekov, “i militanti minacciavano di tornare a casa per rovesciare i governi oppressivi e stabilire la Sharia. Ora la propaganda incoraggia gli asiatici ad andare con le loro famiglie, a vivere e proteggere il Califfato”. Viaggiare con la famiglia servirebbe ai foreign fighter anche per eludere le misure di sicurezza su spostamenti sospetti. “E’ vero, ci sono stati casi di cittadini centroasiatici in viaggio verso la Siria insieme con le famiglie”, dice al Foglio Ryskeldi Satke, reporter e analista kazaco che lavora per varie testate internazionali: “Molte fonti ci dicono però che non è possibile sapere quanti centroasiatici stiano effettivamente combattendo in Siria e Iraq. I media usano i dati ufficiali dei governi regionali, ma dire un numero esatto è difficile.

 

Alcuni analisti ritengono che ci siano fino a duemila uomini dell’Asia centrale che hanno preso parte al conflitto siriano, mentre altri ne contano almeno cinquemila”. Il problema, secondo Satke, riguarda pure la scarsa attenzione delle ex repubbliche sovietiche per i diritti umani e lo sviluppo economico: “Migliaia di giovani migranti centroasiatici viaggiano ogni anno in Russia per lavori stagionali e lì sono esposti a radicalizzazione, e sempre più spesso si uniscono a gruppi che operano nelle zone di conflitto”. C’è poi un difetto di comunicazione: “Il cittadino kirghiso ingiustamente accusato di essere il terrorista dimostra che i governi di Ankara e Biskek non collaborano, o quantomeno non si scambiano informazioni critiche legate alla sicurezza. E’ un problema serio alla luce degli attacchi commessi in precedenza da asiatici a Istanbul”: quello all’aeroporto di Atatürk, per esempio, che secondo le autorità sarebbe stato compiuto da asiatici-russi o dell’Asia centrale. “Dati gli ultimi sviluppi, sarebbe opportuno per i governi turco e kirghiso aumentare la cooperazione in materia di sicurezza”. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.