Barack Obama (foto LaPresse)

Quanto è corto il respiro dell'ultima strategia di Obama

Redazione

Voce grossa con Israele, voce grossissima con i russi e mercoledì andrà in armi al Congresso per evitare che il suo Obamacare venga smantellato dall’Amministrazione Trump

Quando Donald Trump è stato eletto alla Casa Bianca, Barack Obama ha inizialmente scelto di fare quel che tutti i presidenti uscenti fanno: allungare la mano, preparare il terreno per una transizione senza troppi intoppi. “Non è il successore che avrei voluto io”, aveva detto Obama all’indomani del voto, in quella mattina in cui tutti attorno a lui piangevano e lui, con un sorriso amaro, aveva rassicurato: il sole sorge di nuovo, si va avanti, non abbiate timori. Trump era andato alla Casa Bianca, si era persino ricreduto sul conto dell’odiato presidente nero, e anche l’elezione più pazza del mondo sembrava avviata sui binari istituzionali. Poi nell’ultima settimana Obama ha mostrato di aver cambiato idea: voce grossa con Israele, voce grossissima con i russi, mercoledì andrà armi in spalla al Congresso per incontrare i democratici in modo da evitare che il suo Obamacare venga smantellato dall’Amministrazione Trump. La parola “firewall” è iniziata a circolare un po’ ovunque come sintesi della strategia di Obama: costruire dei sistemi di protezione al proprio operato in modo da mettere il Congresso di fronte ai propri dilemmi (moltissimi) e imporre da lontano a Trump una maggiore moderazione.

 

Molti sostengono che Obama non ha accettato la sconfitta, che si dimena per non essere travolto dai necrologi sul liberalismo, che non vuole che i suoi otto anni siano sfigurati dalla vittoria di Trump e da Trump stesso – e ancora ieri il fotografo obamiano Pete Souza ha rilasciato l’album delle immagini dell’anno, una struggente operazione nostalgia per chi non si capacita dell’arrivo del presidente repubblicano. Ma psicologia di Obama a parte, quel che conta, soprattutto per noi che non siamo americani, è il mondo che il presidente sta lasciando. L’assenza dell’America nel tavolo di negoziato turco-russo-iraniano in Siria è il riassunto di una politica mediorientale tragicamente fallimentare, e se le sanzioni alla Russia sono un tentativo di riequilibrio globale non appaiono minimamente sufficienti: nel tentennamento obamiano, s’è rafforzato un asse alternativo, cui Trump con tutta probabilità darà mandato ancora più ampio, lui che istintivamente è portato a non occuparsi più di tanto dei guai di paesi altrui (l’Europa non è pervenuta, non che ci si aspettasse qualcosa di diverso).

 

La durezza con cui Washington ha trattato Israele in queste ultime ore, tra astensioni all’Onu e discorsi-ramanzine, rivela che per Obama conta più l’obiettivo di contenere il suo successore piuttosto che rassicurare alleati storici. Sembra un lascito rancoroso e tardivo, che getta ancora più insicurezza sull’anno che si apre, e che per l’Europa in particolare sarà decisivo.

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