Un soldato peshmerga curdo davanti alla diga di Mosul (foto di Daniele Raineri)

Riparte l'offensiva contro Isis in Iraq. I rischi sulla diga (e c'entra l'Italia)

Redazione

Terrore e acqua. I flagelli di Mosul. In un articolo sul New Yorker, Dexter Filkins spiega che esiste un pericolo più grande delle autobomba

È iniziata, dopo due settimane di “pausa”, la seconda fase delle operazioni militari per liberare la parte orientale di Mosul dallo Stato islamico. Secondo il premier iracheno Haider al Abadi servono ancora "tre mesi per eliminare l'Is" dall'Iraq. Fonti della sicurezza hanno riferito ad Agenzia Nova che i militari hanno liberato finora 40 distretti di Mosul est su un totale di 56. Martedì sera, 27 dicembre, è stato distrutto l'ultimo ponte che collegava le due sponde del fiume Tigri alla roccaforte irachena dello Stato islamico: i jihadisti nella parte orientale della città ora si trovano isolati.
 
Le azioni suicide dei combattenti dello Stato islamico hanno costretto le forze irachene a ritirarsi più volte dai distretti liberati, per poi riprenderli con l'aiuto dei raid aerei della coalizione internazionale. Ma in un articolo pubblicato sul New Yorker, Dexter Filkins spiega che esisterebbe un pericolo ancora più grande delle autobomba dei fondamentalisti: la diga di Mosul. “La mattina del 7 agosto 2014, una squadra di combattenti dell'Isis si diresse verso la diga. Per una forza di occupazione era un obiettivo interessante: si regola il flusso di acqua alla città e ai milioni di iracheni che vivono lungo il Tigri”. Un serbatoio che “contiene undici miliardi di metri cubi d’acqua”.
 
“I funzionari americani – continua Filkins  – temevano che lo Stato islamico  potresse tentare di farla saltare, inghiottendo Mosul e una serie di città fino a Baghdad in un'onda colossale. Dopo una lotta intensa, le forze curde hanno spinto fuori i combattenti dello Stato islamico e hanno preso il controllo della diga. Ma, nei mesi successivi, i funzionari americani hanno ispezionato la diga e si sono detti preoccupati che fosse sull'orlo del collasso. Il problema non era strutturale: la diga era stata costruita per sopravvivere a un bombardamento aereo. (In effetti, durante la Guerra del Golfo, i jet americani hanno bombardato il suo generatore, ma la diga è rimasta intatta.) Il problema, secondo Azzam Alwash, un ingegnere civile iracheno-americano che ha servito come consulente sulla diga, è che ‘è stata costruita nel posto sbagliato’. Completata nel 1984, la diga si trova su una base di roccia solubile. Per mantenerla stabile, centinaia di dipendenti devono lavorare tutto il giorno al pompaggio di una miscela di cemento nel terreno sottostante. Senza manutenzione continua, la roccia potrebbe scivolare via, causando l’affondamento della diga. Ma la storia recente dell'Iraq non è stata favorevole a questo tipo di vigilanza”.


 
Già nel maggio di quest’anno l’inviato del Foglio Daniele Raineri era stato accompagnato dalle autorità curde nei tunnel della struttura. Mohsen Hassan Yakoub, il vicedirettore della diga, spiegava perché l’allarmismo è sui media occidentali sarebbe esagerato: “Gli ingegneri sono al corrente di questo problema fin da prima della costruzione della chiusa e ci sono contromisure per allontanare il pericolo”, dichiarava. “Ci sono milleduecentocinquanta sensori, e gli americani durante la guerra ne hanno collegato un paio di centinaia a internet, possiamo vedere cosa succede in diretta sul computer. I sensori ci avvertono dove si aprono i buchi. Noi li raggiungiamo con le trivelle e iniettiamo un mix di cemento con additivi, che rende stabile l’area che si stava indebolendo”. Un rattoppo continuo, “ventiquattr’ore al giorno, sette giorni alla settimana. Un cantiere permanente di quattrocento persone. E la diga così diventa sempre più solida ogni anno che passa”.

 

“Gli ingegneri iracheni – racconta Raineri – pensano che la campagna di allarme sia stata montata dagli americani per fare paura allo Stato islamico. La diga come arma catastrofica ha sempre avuto una certa presa da queste parti”. E ancora: “Un ingegnere iracheno che lavorò alla costruzione della diga e oggi insegna in Svezia, Nadhim al Ansari, dice che i lavori per rendere la diga meno pericolosa a lungo termine sono inutili perché l’unica soluzione definitiva è completare i lavori per la costruzione di una seconda diga, più a valle, nell’area di Badoush, ancora più vicina a Mosul”. Ma “il cantiere si trova ancora dentro il territorio controllato dallo Stato islamico”. Quindi la “soluzione a lungo termine per l’Iraq passa prima per la fine dello Stato islamico come esercito e come leadership in grado di esercitare un controllo pieno sul territorio. Senza quel passo necessario, tutto il resto in Iraq rimane appeso, e tutto va riaggiustato giorno dopo giorno per evitare cedimenti finali”.

 

Adriano Sofri ha scritto un bel reportage dalla diga di Mosul, nel quale spiega come “la controversia su quanto sia reale la minaccia del cedimento della diga (che sia avventuriera fin dalla costruzione è sicuro) è complicata dal fatto che non si contrappongono solo pareri di esperti geo-idraulici, ma interessi politico-militari. Gli americani hanno voluto fortemente un impegno italiano, e l’allarme colossale sulla diga è l’occasione – o lo schermo – migliore per farlo passare più o meno inosservato. Baghdad, dopo aver sostenuto a lungo che la diga aveva solo bisogno di qualche rattoppo e storto la bocca di fronte all’appalto italiano, l’ha firmato – con uno sconto madornale: i due miliardi di dollari ridotti per ora a 300 milioni – ma di fatto non ha alcun controllo sull’area della diga, saldamente in mano ai curdi. In questa zona, di Dohuk e Zakho, i curdi sono quelli del Pdk del presidente Barzani. Come il sud di Kirkuk, questa area, e l’adiacente monte Shingal-Sinjar, vorrà restare curda una volta sbrigata la praticaccia di al Bagdadi. Il quale quando ebbe (per settimane) in mano la diga nell’estate del 2014, mostrò che anche le smanie apocalittiche hanno i loro limiti”.