manifestazione a Berlino dopo l'attentato di lunedì 19 dicembre (foto LaPresse)

Il dramma dell'occidente che davanti al male sa solo cantare “Imagine”

Sergio Belardinelli

Lo slancio profetico della chiesa appare troppo legato alle logiche del mondo. La rimozione del senso di realtà

Attraversiamo un momento difficilissimo della nostra storia. Il terrorismo di matrice islamista sta seminando terrore e morte non soltanto in Africa o in medio oriente, ma nel cuore stesso dell’Europa. L’attentato al mercatino natalizio di Berlino, davanti alla chiesa della memoria, ci parla addirittura della volontà di uccidere il Natale, certamente uno dei principali propulsori dell’umanità europea. La drammatica questione degli immigrati sembra ridare voce ovunque nel Vecchio continente a un populismo rozzo e xenofobo, dietro il quale si intravvede una crisi che non è soltanto politica ed economica, ma soprattutto culturale. Eppure, a leggere le analisi che si fanno di questi eventi, colpisce soprattutto la rimozione dell’unica dimensione capace di inserirli in un orizzonte di comprensibilità: il senso della realtà e il senso del tragico che essa porta sempre con sé.
Sul piano dell’analisi politica assistiamo alla diffusione di un atteggiamento emotivista, astratto, efficace soltanto a separare il mondo in buoni e cattivi, che trova nel “politicamente corretto” la sua variante più dispotica e significativa. Il male che da sempre segna in modo drammatico la storia umana e il cuore di tutti gli uomini viene come esorcizzato imputandolo semplicemente ai “cattivi”, identificati secondo i parametri della suddetta correttezza politica (i mercanti di armi, le multinazionali, gli amici del libero mercato, i difensori della famiglia eterosessuale o coloro che si ostinano a pensare che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è giusto che venga tecnicamente realizzato, tanto per citarne alcuni).

Le rivoluzioni moderne e la tragedia dei totalitarismi ci hanno fatto vedere, come mai si era visto prima, il lato demoniaco del potere, ma noi preferiamo chiudere miseramente gli occhi sull’aura inquietante che continua ad avvolgerlo anche nelle sue varianti liberaldemocratiche. “I re delle nazioni le governano – diceva Gesù – e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori”. Ma noi occidentali, piuttosto che guardare negli occhi i mali che ci affliggono, gridando magari a Dio il nostro sgomento e la nostra disperazione, preferiamo cantare Imagine di John Lennon.

 

 
La nostra società trasparente, a differenza di quanto sembra abbia dovuto fare spesso Thomas Hobbes, non ammette che si aprano le finestre sulla politica, ma che subito le si richiuda per paura della tempesta. Siamo diventati razionali, perbacco! La nudità del Leviatano e del suo immenso potere non ci spaventano più, né ci piace più guardare l’abisso da cui la “bestia” proviene. Basta insomma con gli arcana imperii e largo invece alla diretta streaming. Esempi eloquenti di una tragica rimozione del senso della realtà, i cui effetti si fanno sentire ovunque, specialmente nel moralismo e nella sciatteria che ammorbano il nostro dibattito pubblico, con la politica ridotta a chiacchiera per il mantenimento o la conquista narcisistica di un potere, del quale non conosciamo più la natura, nobile e inquietante insieme.


“Ormai solo un Dio ci può salvare” diceva Heidegger. Ma purtroppo nemmeno la chiesa cattolica sembra del tutto immune dalla suddetta rimozione. Nella denuncia appassionata e sacrosanta dei mali del mondo, primi fra tutti la guerra, la povertà, i disperati che cercano di sfuggirvi, l’inquinamento ambientale, c’è sicuramente la volontà di essere vicini agli “ultimi” che ne contraddistingue da sempre il magistero e, soprattutto, le innumerevoli opere di carità; ho tuttavia l’impressione che la denuncia delle cause di questi mali sia troppo “umana”. E’ un po’ come se, additando il mercato e il liberismo come i principali responsabili (imputazioni peraltro assai opinabili), venisse edulcorata la tremenda, tragica, serietà del male che viene denunciato. Con la conseguenza che lo slancio profetico della denuncia si indebolisce proprio per il fatto di apparire troppo legato alle logiche del mondo, al limite, troppo politico e troppo poco escatologico.


La profezia rappresenta sempre un’iniezione di realismo all’interno della politica in generale, proprio perché nel denunciare le storture del tempo presente, non trascura mai la “realtà effettuale” né il mysterium iniquitatis che l’avvolge. In questo senso la profezia svolge un servizio culturale del quale il mondo ha urgente bisogno. Appellarsi ai buoni sentimenti per fronteggiare le sfide di cui stiamo parlando sarebbe semplicemente irrealistico. L’idea classica dell’uomo, la tragicità ineludibile che segna la sua natura e la sua storia, la sua trascendenza rispetto alle condizioni biologiche e socio-culturali della sua esistenza, quindi la sua dignità e libertà, rappresentano i veri presupposti che ci consentono, anzi, ci obbligano, a guardare realisticamente alla “realtà effettuale” con la fiducia che essa sia possibile anche diversamente, senza tuttavia pretendere che la si possa asservire in toto ai nostri pur nobili desideri.


Nell’occhiello posto da Hegel all’inizio della sua Abilitationsschrift sta scritto: Principium scientiae moralis est reverentia fato habenda. La realtà nella quale viviamo non dipende o dipende soltanto in parte da noi. Non scegliamo le condizioni in cui veniamo al mondo e spesso impariamo a nostre spese quanto possano essere tragiche. Ma proprio se vogliamo cambiare la realtà che ci circonda, le dobbiamo “riverenza”, visto che la nostra libertà trova in essa sia il suo limite, sia la condizione che la rende possibile e la sfida. Misconoscere questo limite, il limite rappresentato dalla realtà, per quanto possa apparire intellettualmente consolatorio, comporta sempre il pericolo di rimanere vittime del fatto di averlo misconosciuto.