Donald Trump (foto LaPResse)

La diplomazia petrolifera di Trump per saldare l'alleanza con Putin

La scelta di Tillerson è un rifiuto dell’approccio dottrinario alle relazioni internazionali in favore di una logica affaristica guidata dall’interesse

New York. Dopo gli annunci a metà, i tentennamenti tattici, i tweet interlocutori e la solita cortina fumogena per confondere, ieri Donald Trump ha scelto come segretario di stato Rex Tillerson, amministratore delegato di Exxon Mobil. E’ la nomina più trumpiana di un governo dove non mancano, specialmente nei punti nevralgici, elementi di continuità con l’amministrazione Obama e mani tese all’odiato establishment repubblicano. Il signore del petrolio che si trasforma in capo della diplomazia americana senza sapere nulla di protocolli, ma sapendola lunga di business globale e “deal” transnazionali con ampi margini di profitto, è una purissima incarnazione del trumpismo e delle sue contraddizioni. E’ a Tillerson che spetta il compito supremo di tagliare i ponti con la famosa genia dei politici “all talk, no action” andando in giro per il mondo a fare grande l’America così come ha fatto grande la compagnia figlia dell’avita casata dei Rockefeller. Nel 2015 la Exxon ha fatturato quasi 269 miliardi di dollari. L’ironia è che il più trumpiano dei membri dell’esecutivo non l’ha sostenuto durante la campagna elettorale, preferendogli quel Jeb Bush che è “low energy” sul palco, ma di energia se ne intende per appartenenza famigliare. In quanto fratelli di Texas, i due s’intendono, e Tillerson s’intende anche con tutti i candidati repubblicani dell’establishment che nel corso degli anni ha generosamente finanziato.Il segretario di stato dell’Amministrazione Trump è un sostenitore dell’accordo di Parigi (Trump è contrario), è favorevole all’area di libero scambio dei paesi del Pacifico (Trump è contrario), sostiene il Common Core (Trump è contrario), giudica la minaccia dei cambiamenti climatici causati dall’uomo “reale” e “seria” (Trump ci sta pensando) ed è un boy scout (Trump ha fatto ai boy scout la più piccola donazione della sua modesta carriera di filantropo: 7 dollari).

Qualche anno fa al Council on Foreign Relations ha illustrato la sua posizione contraria all’isolazionismo che il presidente eletto predica: “Gli Stati Uniti devono cercare la cosiddetta indipendenza energetica in un illusorio tentativo di isolare il paese dall’impatto degli eventi globali sull’economia, oppure devono seguire la strada del coinvolgimento internazionale, cercando nuove vie per competere nel mercato globale dell’energia? Credo che dobbiamo scegliere un maggiore coinvolgimento internazionale”. La scelta di Tillerson ha l’aria di una virata verso posizioni realiste e pragmatiche più che di una concessione all’ideale dell’America First. Più in generale, si tratta di un rifiuto dell’approccio dottrinario alle relazioni internazionali in favore di una logica affaristica guidata dall’interesse. Si tratta di sostituire il profitto con l’interesse nazionale. Ad aggiungere la postura ideale sarà il falco neoconservatore John Bolton, che sarà il numero due a Foggy Bottom. Sono stati Steve Bannon e Jared Kushner, la trasversale diarchia che va osservata per capire il trumpismo, a spingere per la nomina del supermanager che è conosciuto soprattutto per i suoi legami con Vladimir Putin, questione di affari fra grandi player dell’energia che gli avversari amano dipingere come un perverso bromance.

 

La faccia gaudente del manager in compagnia di Putin al conferimento di un prestigioso riconoscimento di amicizia si è diffusa ovunque non appena il suo nome ha preso a circolare. Il suo uomo di fiducia al Cremlino è l’ubiquo Igor Sochin, il chairman di Rosneft e consigliere che sussurra all’orecchio del presidente le indicazioni più conservatrici. Tillerson, che in Exxon è entrato come ingegnere della produzione nel 1975, è stato a capo di una divisione russa dell’azienda e ha negoziato contratti esplorativi in aree dell’Artico controllate dalla Russia, si è battuto per la revoca delle sanzioni a Mosca, strumento che in generale giudica inefficace. Uno strappo notevole rispetto a un’amministrazione che ha condotto i rapporti con gli avversari a suon di sanzioni, con risultati modesti. Nessuno è più preparato di lui per ricostruire i rapporti con Mosca, la priorità geopolitica dell’Amministrazione Trump. Per addomesticare l’establishment repubblicano contrariato dalle amicizie moscovite di Tillerson e agevolare una conferma al senato tutt’altro che scontata, Trump ha assoldato una serie di alleati autorevoli che garantiscono sulla nomina. Bob Gates, ex segretario della difesa con affiliazione obamiana e bushiana, lo ha definito un “campione globale dei migliori valori del nostro paese”, per Condoleezza Rice si tratta di “un’ottima scelta per il dipartimento di stato”: “Porterà all’incarico una notevole e vasta esperienza internazionale”, ha scritto su Facebook. Apprezzamenti simili sono arrivati dall’ex segretario James Baker e dal senatore Bob Corker, che era nella lista dei finalisti per la nomination. E’ una parata di consenso organizzata per raffreddare gli animi dei repubblicani al Congresso, riscaldati in questi giorni dalle divergenze con il presidente eletto a proposito delle interferenze del Cremlino nelle elezioni segnalate dall’intelligence.

Il leader del Senato, Mitch McConnell e lo speaker della Camera, Paul Ryan, si sono gettati a corpo morto nella richiesta di una nuova indagine, rompendo con Trump in una manovra a metà fra la frizione politica e il gioco delle parti. Non c’è stato però tempo di ponderare le reazioni, ché il reality show della transizione che si muove di fretta. Mentre il presidente eletto si faceva fotografare con l’amico Kanye West dopo avere discusso “della vita” in un colloquio privato, è arrivata la notizia che l’ex governatore del Texas, Rick Perry, sarà il prossimo segretario dell’energia. Grande fautore di trivellazioni ed estrazioni, anni fa, durante un’imbarazzante campagna presidenziale, era intenzionato a eliminare il dipartimento che andrà a dirigere. Si era perfino dimenticato il nome del ministero durante un dibattito, con un’amnesia diventata virale. 

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