La cattedrale di San Marco, al Cairo, sede della chiesa ortodossa copta (LaPresse)

"L'attentato contro i copti è il solito refrain, bisogna limitare al Azhar"

Matteo Matzuzzi

Parla Ashraf Ramelah, presidente di Voice of the Copts: "Il piano è quello di Nasser, eliminare i cristiani dall'Egitto".

Roma. “Niente di nuovo, è il solito triste refrain cui siamo abituati da decenni”, dice al Foglio Ashraf Ramelah, presidente di Voice of the Copts, organizzazione no profit attiva nella difesa dei copti egiziani. “Ormai in Egitto, come del resto in tutti i paesi a maggioranza islamica, la mentalità di odio contro tutto ciò che islamico non è ha toccato i livelli massimi”. Date le premesse, interpretare l’attentato che domenica ha causato la morte di venticinque cristiani nella chiesa di San Pietro, adiacente alla cattedrale di San Marco, al Cairo, è semplice: “Questa strage non rompe nessun equilibrio, perché non vi può essere equilibrio quando i cristiani sono solo il dieci per cento della popolazione e non riescono a rappresentare una comunità. Secondo il mio punto di vista, è un piano che è stato programmato fin dai tempi di Gamal Abdel Nasser, che prevedeva la cacciata degli ebrei dall’Egitto (e oggi infatti ne sono rimasti pochissimi). Negli anni Sessanta, si è pensato di applicare lo stesso schema ai copti, che proprio per questo hanno iniziato a emigrare. Ora si vuole spingere i cristiani nel loro complesso ad andarsene. D’altronde, già Sadat disse che i cristiani devono pulire le scarpe ai musulmani”.

 

La responsabilità primaria, aggiunge, “è di al Azhar, una sorta di partito trasversale che nel tempo si è infiltrato ovunque, fin dai tempi di Nasser”. Ma di acqua sotto i ponti, dall’epoca di Nasser, ne è passata molta e ora c’è Abdel Fattah al Sisi: “Sì, ma non si è capito ancora cosa sia, dopo due anni dal discorso con cui invocò una riforma dell’islam. Una settimana fa ha ribadito la necessità di modificare i libri islamici, ma nello stesso momento Ahmed al Tayyeb, che di al Azhar è il Grande imam, ha detto che non si può fare, perché la religione è questa. Ecco, oggi sta accadendo questo”.

 

Da qui la domanda: “Io mi chiedo come si possa dire che questa è una religione di pace, che impedisce qualunque ragionamento fattivo sulla sua riformabilità. In questo, va detto, è complice anche l’Europa, che si è a tal punto assuefatta dal condannare Geert Wilders per aver parlato male dell’islam. L’Europa orami sta cancellando la propria identità, ma lo fa piano piano, gradualmente. Senza quasi accorgersene”. E così facendo accoglie a braccia aperte come messaggero di pace al Tayyeb, “che a sentirlo parlare in Egitto è tutto meno che moderato”. Al Tayyeb ricevuto anche dal Papa, però.

 

“E infatti io ho criticato questo gesto d’ambiguità. Noi cristiani – spiega Ramelah – siamo stati abituati al fatto che Cristo ci ha insegnato a dire Sì Sì, No No. Non c’è ambiguità nel cristianesimo: se tu non mi piaci, io te lo dico”. Invece al Azhar è riuscita a ritagliarsi un ruolo di prestigio, assai autorevole: conferenze, udienze, pubblicazioni. “Funziona sempre così: quando al Azhar è debole si mostra disponibile a ogni cosa, soprattutto a dialogare. Quando è forte, fa la dura. E mai come ora è stata così forte”. Se ciò che dice Sisi è vero, e cioè che pretende cambiamenti, ha una sola strada davanti: “Limitare al Azhar, rendendolo solo un istituto religioso.  Solo così, forse, vedremo qualche risultato”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.