(foto LaPresse)

“Mad Man” alla giapponese. Così Tokyo vuole risolvere il problema dei karoshi

Giulia Pompili

Nel paese della robotica dove si può morire di lavoro

Roma. Matsuri Takahashi aveva 24 anni. Lavorava per la Dentsu, colosso giapponese nel settore della pubblicità, da nemmeno un anno. Si occupava della gestione dei banner pubblicitari su internet. Nel giro di pochi mesi, il personale della sua divisione era stato dimezzato, ma il carico di lavoro era rimasto invariato. Ogni giorno, Matsuri condivideva su Twitter i suoi stati d’animo: “Hanno deciso che devo lavorare sempre, dal sabato alla domenica. Vorrei davvero che finisse tutto”, “Sono le quattro del mattino… Sto tremando, non riesco proprio a farcela. Sto per morire. Sono così stanca”; e poi: “Il capoufficio mi ha detto: ‘I tuoi capelli sono uno schifo, e non venire a lavoro con quegli occhi rossi’. ‘Sei un’incompetente se non sai gestire questa mole di lavoro’, io ho risposto: ‘Non posso nemmeno avere gli occhi rossi?’”; “Sono mentalmente e fisicamente devastata, tutte le notti non riesco a dormire pensando al fatto che arriverà domani”. Il giorno di Natale dello scorso anno, Matsuri si è buttata giù dal terzo piano del suo dormitorio. Su Twitter i motivi del suo suicidio apparivano chiari (“Il capo ha detto che sono priva di femminilità. Anche se lui voleva forse strapparmi una risata, io non ce la faccio più”; “Forse la morte sarebbe la soluzione più felice”) e anche la email che aveva mandato qualche ora prima alla madre: “Grazie di tutto”.

Il 30 settembre dello scorso anno, il tribunale del lavoro di Tokyo ha riconosciuto il suo suicidio di Matsuri indotto dalla pressione sul lavoro e lo stress dovuto agli eccessivi orari a cui veniva sottoposta. La ventiquattrenne è morta per karoshi, dunque, la parola giapponese che indica una sindrome che può portare al decesso, e che è causata dal troppo lavoro. Secondo i giudici, Matsuri avrebbe fatto 105 ore di straordinario nell’ultimo mese prima di ammazzarsi. Nello stesso periodo, il ministero della Salute e del Lavoro di Tokyo aveva pubblicato per la prima volta il libro bianco sui karoshi, un fenomeno silenzioso, di cui il Giappone non ha mai parlato volentieri, riconosciuto alla fine degli anni Ottanta. Il karoshi riguarda la cultura del lavoro nipponica che ha inizio con il boom economico degli anni Sessanta (e la nascita della categoria dei salaryman), anche se qualcuno fa risalire questa dedizione ossessiva al lavoro – al limite dello sfruttamento – agli anni Venti e al Giappone imperiale, con l’etica sulla fedeltà ai propri doveri. Il primo libro bianco sui karoshi è stato pubblicato grazie a una legge approvata nel 2014, uno dei primi sforzi del governo per attenuare le conseguenze di alcune consuetudini aziendali. Nel report si legge che un’azienda su quattro costringe i suoi dipendenti ad almeno 80 ore di straordinario mensili. Secondo una statistica dell’Agenzia nazionale di polizia, 2.159 persone nel 2015 si sono suicidate per problemi legati al lavoro.

In Giappone il problema dell’alcolismo, le immagini dei giapponesi che fanno inemuri – l’abitudine di dormire in metropolitana, a lezione, durante le riunioni – sono tutti aspetti legati al problema della cultura del lavoro. Un articolo apparso sull’ultimo numero della Nikkei Asian Review spiegava come il caso di Matsuri stia in realtà scuotendo le coscienze e l’opinione pubblica giapponese, per la prima volta davvero coinvolta – e in parte sostenuta pure da provvedimenti governativi. La Dentsu, l’agenzia pubblicitaria per cui lavorava Matsuri, non era nuova a certe pratiche particolarmente dure. Un esempio su tutti: i nuovi assunti, ogni anno nel mese di luglio, sono costretti a scalare il monte Fuji tutti insieme, in una tradizione che ha avuto inizio nel 1925 e che rappresenta la capacità dei dipendenti di “conquistare il simbolo del Giappone”. Nel 1991 un altro giovane dipendente della Dentsu si uccise, e dopo quasi vent’anni di battaglie legali, la Corte suprema giapponese aveva riconosciuto la sua morte come karoshi. E’ anche per questo che dopo la decisione del tribunale del lavoro di Tokyo per la morte di Matsuri, gli uffici della Dentsu sono stati perquisiti ben due volte, la seconda volta da una squadra di 88 funzionari, in un dispiegamento di forze notevole per una cultura come quella giapponese dove ancora in molti sottovalutano il problema. C’è poi un altro aspetto da considerare. Di quasi 44 mila dipendenti della Dentsu group., soltanto il 30 per cento sono donne. Quando il premier Shinzo Abe parla di “womenomics”, delle politiche per riportare le donne al lavoro, sa che deve fare i conti anche con questo. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.