Fidel Castro (foto LaPresse)

Cuba castrata

Luciano Capone

Il regime di Fidel non è solo una feroce dittatura, ma anche un grande fallimento economico

Roma. La Cuba di Fidel Castro viene spesso descritta come una dittatura che ha negato le libertà civili, perseguitato i nemici di classe, soffocato la democrazia, ucciso, arrestato ed esiliato migliaia di dissidenti politici. Ma non è stata solo questo. Come tutti i regimi comunisti del Ventesimo secolo, è stata anche un disastro economico, che ha costretto gran parte della popolazione a misere condizioni di vita. Storicamente, a partire dal XVI secolo, Cuba ha avuto un pil pro capite elevato per gli standard della regione. Alla vigilia della Revolución, quando Fidel combatteva la dittatura di Fulgencio Batista, l’isola aveva un’economia tra le più prospere dell’America latina. Oggi è una delle più povere, agli stessi livelli di allora. In mezzo, quasi 60 anni di Castro e socialismo.

Nel 1959, quando Fidel Castro prese il potere, Cuba era un paese in via di sviluppo, in testa alle classifiche regionali per una serie di indicatori sociali ed economici. Aveva la mortalità infantile più bassa, un’aspettativa di vita tra le più alte, era ai primi posti per numero di medici e consumo di calorie pro capite, aveva un tasso di alfabetizzazione prossimo all’80 per cento e un pil pro capite che, a seconda dei dati e delle fonti utilizzate da storici ed economisti, era tra il secondo e il quarto posto in America latina. L’economia si basava prevalentemente sulla produzione di zucchero, che contava per quasi un terzo del pil e per l’80 per cento delle esportazioni, ma erano sviluppate anche le attività legate al turismo: hotel, ristoranti e night club. Secondo i dati dell’economista Angus Maddison, il pil pro capite cubano nel 1959 era di circa 2 mila dollari l’anno, più o meno pari a quello di paesi simili come Panama e Porto Rico (quest’ultimo un po’ più elevato). Dopo quarant’anni, il pil pro capite cubano è salito di poche centinaia di dollari l’anno (2.300), mentre quello di Panama è più che raddoppiato (5.600) e quello di Porto Rico più che quadriplicato (13.700).

Tre economisti di un’università brasiliana (Ribeiro, Stein e Kang) in uno studio hanno mostrato come la divergenza economica tra Cuba e gli altri paesi dell’America latina sia partita proprio con l’avvento di Castro e come la stagnazione della crescita economica sia dovuta ai cambiamenti istituzionali introdotti dalla rivoluzione. Se l’isola avesse seguito i trend di crescita precedenti e quelli degi altri paesi caraibici, il pil pro capite dopo quarant’anni sarebbe stato almeno il triplo. La causa della paralisi economica del sistema cubano è tutta da ricercare nelle scelte politico-ideologiche del regime che in pochi anni ha abolito la proprietà privata, distrutto i meccanismi di mercato e il sistema dei prezzi, istituito una pianificazone dell’economia sul modello staliniano. La centralizzazione, la collettivizzazione e la pianificazione economica, soprattutto nella fase più radicale ispirata da Che Guevara, distrussero ogni incentivo alla produzione, portarono a declino della produttività, distorsione dei prezzi e naturalmente scarsità di beni essenziali. L’unico motivo per cui un sistema così inefficiente come quello cubano è riuscito a sopravvivere così a lungo, oltre naturalmente alla repressione, alla violenza, alla privazione della libertà e a forme di schiavismo di stato, sono stati i sussidi degli alleati politici.

In particolar modo l’Unione Sovietica, che ha assistito Cuba in funzione anti americana con aiuti pari, secondo l’economista Carmelo Mesa-Lago, a circa 65 miliardi di dollari in tre decenni, che hanno permesso alcuni periodi di crescita economica. Dato l’enorme aiuto sovietico, non ha neppure molto senso imputare le difficoltà economiche cubane all’embargo statunitense, che pure degli effetti negativi ha prodotto, sia per un fatto ideologico, perché è un controsenso per un regime comunista voler fare scambi commerciali con il Satana imperialista (in questo senso il “bloqueo” ha obbligato il regime a mantenere la sua purezza), ma soprattutto perché gli accordi commerciali siglati con l’Unione Sovietica e gli altri paesi del blocco comunista hanno più che compensato la perdita di export verso gli Stati Uniti (a Mosca arrivava oltre il 70 per cento dell’export cubano). Con il crollo del muro di Berlino e la fine del flusso di rubli verso l’Havana, il pil cubano si è contratto di oltre un terzo, facendo patire fame e stenti ai cubani, fino a quando Castro non ha trovato un nuovo finanziatore in Hugo Chávez, che durante il boom petrolifero ha garantito un flusso di dollari superiore a quello sovietico. Poi la profonda crisi del Venezuela ha costretto il regime a fare qualche riforma di mercato. Nonostante le piccole aperture di Raúl Castro, che molti impropriamente hanno paragonato alla svolta di mercato cinese, Cuba resta con la Corea del Nord l’economia socialista con il ruolo più ampio dello stato nell’economia.

Quanto sia inefficiente questo sistema l’ha paradossalmente spiegato un adulatore di Castro, Gabriel García Márquez. Nella prefazione del libro con l’intervista-fiume di Gianni Minà a Castro, il premio Nobel scrisse che a Cuba “esiste un’incompetenza burocratica colossale che ha obbligato lo stesso Fidel, quasi trent’anni dopo la vittoria, a occuparsi in prima persona di affari fuori dall’ordinario come fare il pane e distribuire la birra”. Nel maldestro tentativo di elogiare le eccezionali qualità di Fidel Castro, Márquez aveva involontariamente mostrato come il fallimento della pianificazione fosse visibile già dalla panificazione. 

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali