Manifestazioni in memoria di Fidel Castro a San Salvador (foto LaPresse)

Cosa vi siete bevuti su Fidel Castro

Angela Nocioni

Perché sopravvive ancora il mito del “era-un-dittatore-ma”? La megalomania del Comandante che voleva solo per sé il potere dell’ultimo circo sovietico del pianeta

Ora che il cadavere è cremato, ora che migliaia di cubani potranno liberamente sfilare in Plaza de la Revolución, tutti belli irreggimentati anche nei nove giorni di lutto obbligatorio per rendere omaggio alla memoria del Comandante in capo sotto la vigilanza dei Cdr – i comitati di difesa della rivoluzione, ce ne è uno in ogni strada all’Avana, sono composti da vicini occhiuti, civili addestrati a fare la spia, a controllare chi c’è, chi non c’è, con chi è, se commenta e cosa dice – chissà se almeno qua, dove i Cdr non ci sono e la rivoluzione socialista non l’ha fatta nessuno, potremo mettere una pietra tombale sulla ottusa benevolenza che ancora aleggia in ambienti liberal attorno alla figura di Fidel Castro. Perché anche stavolta, in attesa del Grande Funerale, tra commentatori navigati e si suppone democratici – non solo tra i soliti quattro fanatici delle rivoluzioni a casa d’altri, gente che non sopporterebbe mezza giornata nella pelle di un cubano qualsiasi senza amici nel partito – anche stavolta, dicevamo, sono abbondati i giudizi di manica larga e le scemenze caramellose su Cuba. Davvero ogni volta che capiterà di parlare di Fidel Castro continueremo a sentir dire che “Fidel era un dittatore, tuttavia…”? Non c’è nessun tuttavia, purtroppo. Fidel Castro è stato un monarca megalomane disinteressato alle sorti dei suoi sudditi, rimasti tali dopo sessant’anni di rivoluzione. Lo è diventato quasi subito dopo aver preso il posto di Fulgencio Batista (ed era il primo gennaio del 1959). Decenni di educazione socialista hanno insegnato a milioni di persone a mentire per timore e per convenienza, a compiacere, a spiare, a tradire, a vendersi, a non alzare mai la testa. La luminosa società degli Uomini Nuovi che Fidel Castro diceva di voler costruire è ancora un posto in cui le attività più diffuse sono il furto allo stato e la prostituzione, più o meno soft. Non basta questo a sfatare quel che resta del mito di Fidel, a strappare il poster? Se Donald Trump fa paura e anche i famosi maschi bianchi che l’avrebbero votato in massa simpaticissimi non sono, si può sapere perché dovrebbe essere invece in qualche modo affascinante la figura di un militare ciclotimico che ha sempre governato con soli maschi bianchi, parenti stretti quando possibile?

 

In sessant’anni di rivoluzione non una donna né un nero hanno mai contato qualcosa all’Avana. Anche il penoso riferimento al fatto che Fidel non dormisse mai di notte, è rispuntato fuori in questi giorni. Insieme a quello sul suo presunto insaziabile appetito sessuale. El Caballo implacabile – per favore basta. Fidel Castro è stato un gran bell’uomo, certo. Anche da vecchio, ingolfato dentro la tuta da ginnastica, era il miglior testimonial che l’Adidas potesse mai sognare. Per chi apprezza il genere impettito in divisa verde oliva, era molto meglio di Kim il Sung. E’ sufficiente tutto ciò per guardarlo in eterno con gli occhi di Gina Lollobrigida? E siamo sicuri poi che fosse un mostro di cultura, solo perché Giulio Andreotti ha detto che una volta gli citò due classici a memoria? Alla fine Fidel era un brillante avvocato, con l’ottima educazione dei collegi gesuiti alle spalle, che leggeva roba sparsa, da Seneca ai trattatelli di giardinaggio. Con la pretesa di farsi esperto di qualsiasi materia diventasse oggetto della sua attenzione e soprattutto con la presunzione di riuscirci. Ne sanno qualcosa i suoi ospiti internazionali, costretti ad annuire per ore a dettagli insulsi durante interminabili dissertazioni su tutto. Anche sulle coltivazioni in idroponica, sugli orti urbani, sulle incredibili proprietà antiossidanti di un frutto locale che piaceva solo a lui. E ne sanno qualcosa i poveri cubani che la sera, durante l’attesa degli uragani, frequenti a Cuba, tappati in casa con i legni alle finestre, non potevano nemmeno vedersi in pace la telenovela delle otto perché in tv c’era Fidel-meteorologo piazzato con la bacchetta davanti alla cartina geografica che straparlava di venti e onde.

 

I soggiogati dalla sua leggendaria astuzia, dalla sagacia, dall’imprevedibile temperamento (che poi era prepotenza pura) si sono bevuti il mito del Comandante en jefe, come se Fidel non fosse soprattutto un monarca tenutosi sempre ben distante dal suo popolo. Perché l’ultimo comunista del pianeta ha vissuto lontano dall’“extraordinario pueblo cubano” a cui si rivolgeva con enfasi. Prima l’infanzia in campagna, poi i gesuiti, poi la Sierra maestra, poi il potere con la mania della separatezza e del segreto. Le infinite ville, in città, al mare, sulle isolette, in campagna, la fattoria dove si faceva coltivare la verdurina biologica, la residenza dove ha passato gli ultimi anni. Fidel era un elitista che nemmeno il Re Sole, il quale almeno non la menava con l’egualitarismo.

 

Quando il Comandante si prese il potere per sé, prima di consegnare l’isola per calcolo all’Unione sovietica, non era nemmeno marxista e chissà se lo fu mai. Era un nazionalista populista, un uomo d’azione. Un ottimo stratega, uno straordinario scacchista, favorito, in piena Guerra Fredda, dalla posizione geografica dell’isola socialista che galleggia a novanta miglia di mare dalla Florida. S’è sempre dato arie da Messia, ma si fa fatica a trovare un contenuto etico alle sue azioni. Mentiva Fidel, mentiva sempre e con tono ieratico. Diceva che a Cuba non si torturava, ma chiunque sia passato dalle stanze della polizia rivoluzionaria racconta tutta un’altra storia. Diceva che a Cuba non c’era razzismo, ma la periferia dell’Avana è disseminata di baraccopoli piene di soli neri, esattamente come succede in altre città latinoamericane, con la differenza però che le baraccopoli cubane sono illegali, cioè ufficialmente inesistenti, cancellate dallo scenario di cartapesta del regime che nega ancora quel che non gli piace, persone comprese. Fidel era insopportabilmente paternalista, sempre pedagogico. Dov’era il suo carisma? Era dogmatico, apocalittico. Ogni parola, un comandamento.

 

Ogni gesto, un segno definitivo nella lotta epica tra bene e male. Noiosissimo, tra l’altro. Ripetitivo, logorroico, con quel dito indice sempre alzato. Un Savonarola h24. La metà dei suoi discorsi sembravano omelie recitate a braccio. Contro l’individualismo, l’egoismo, il consumismo, che guarda caso sono rimasti gli unici fari accesi, al momento, tra i cubani nati dopo il trionfo della rivoluzione, cioè ormai quasi tutti, in una Cuba post-socialista dove ciascuno fa per sé e ci si vende al primo turista che passa per consumare di più e meglio, non per mangiare. Ha distribuito comandamenti a tutti, Fidel Castro, per mezzo secolo, con quel tono da predicatore imbronciato, ma l’unico suo credo è stato il mantenimento del potere. E questo si vedeva benissimo, da subito, già nei gloriosi anni Sessanta, non c’era bisogno d’aspettare che venisse giù tutta l’Urss per capire che Castro voleva il potere per sé. Finché è stato utile alla sopravvivenza del regime il modello moscovita, a Fidel è andato benissimo abbracciarlo per intero copiando da Mosca la burocrazia sovietica, la censura, l’apparato militare e poliziesco, lo spionaggio interno, l’infantile apparato di propaganda, l’eliminazione degli avversari, il controllo minuzioso sulla vita quotidiana delle persone. El Hombre nuevo, alieno ai vizi del capitalismo, che doveva nascere a forza da questo esperimento di purezza imponendo di fatto il divieto d’espatrio alla gente allegra di un’isola caraibica, per fortuna non è mai nato.

 

L’importazione a freddo dello stampino di Mosca è piaciuta così poco ai cubani, castristi e non, che ancora adesso, a Urss disintegrata da un pezzo, quando all’Avana si vede un nero ballare male, si dice con disgusto che “sarà stato per colpa di uno spermatozoo sovietico”. Non si capisce cosa possa giustificare un giudizio tutto sommato bonario, nella ostinazione con cui Fidel Castro ha costretto la sua gente dentro un surreale circo socialista finanziato con i soldi di Mosca prima e del Venezuela chavista poi. Quest’ultimo ripagato non solo con le missioni di medici (un terzo dei medici cubani non è tornato indietro, ha chiesto asilo ovunque, anche nei posti più sfigati della Terra) ma con l’appalto gratuito dei servizi di sicurezza, l’unica cosa che ha sempre funzionato a Cuba. A Caracas sono stati i cubani a insegnare al governo arruffato e pasticcione di Hugo Chávez, all’inizio, come tentare di controllare l’opposizione, come strozzare la dissidenza interna: agli imprenditori scomodi si negano o si rallentano le concessioni di dollari per pagare le importazioni, alle ong critiche le si accusa di essere agenti dell’imperialismo, se l’opposizione convoca una manifestazione si organizza una marcia contraria di sostenitori del governo, ai giornalisti critici si impedisce l’accesso alle fonti ufficiali.

 

E’ stato sotto la regia dei servizi cubani dislocati a Caracas che s’è organizzata la guerriglia di propaganda con centinaia di militanti propagandisti attivi nelle reti sociali. Loro hanno spiegato ai venezuelani come occupare il potere giudiziario per poi usarlo come arma di dissuasione o minaccia costante contro l’opposizione che in Venezuela, a differenza che a Cuba, c’è sempre stata e si è liberamente espressa. Non si capisce come in Fidel si sia potuta intravedere un’anima da Libertador: era un capo inclemente che è riuscito per anni a vietare il rock and roll in un’isola che vive di musica. Bastava guardare la gioia liberatoria con cui all’Avana, il 25 marzo scorso, sono stati accolti i Rolling Stones quando sono usciti sul palco del loro primo concerto per capire la paranoica assurdità dei divieti mantenuti per decenni del regime. E la cecità di chi, da fuori, non ha mai smesso di guardarlo con tenerezza. Quando un Fidel ancora giovane decise di mostrare la sua omofobia brutale, perché l’omosessualità rientrava tra i vizi borghesi che si dovevano estirpare, quello che fece fu tentare di far sparire gli omosessuali (lui li chiamava “enfermitos”).

 

Poco tenere furono anche le campagne per la rieducazione delle prostitute, cancellate a intermittenza dalla mappa pubblica dell’isola perché la Cuba rivoluzionaria non doveva somigliare al bordello per americani che era ai tempi di Batista e che probabilmente tornerà a essere quanto prima, dopo esserlo stato nel frattempo per migliaia di turisti del resto del mondo, in gran parte italiani. Cosa c’è di giustificabile nel modo imperioso con cui quest’uomo ha costretto milioni di persone a un’anti modernità rurale facendo della repressione delle libertà individuali e dell’odio per la democrazia liberale l’anima di una rivoluzione fallita? Fidel Castro non ha mai ammesso mezzo errore, nemmeno davanti al disastro economico, all’evidenza del nepotismo rampante, alla miseria dilagante, ai privilegi smisurati della élite militare. Avrebbe lasciato scappare per mare e avrebbe lasciato affogare mezzo paese, piuttosto. Come già mostrò di esser disposto a fare nel 1980, con l’esodo del Mariel.

 

Quando in uno scaltrissimo braccio di ferro con Washington, forse la mossa più intelligente di Fidel, per forzare la mano al nemico tolse la protezione all’ambasciata del Perù: ci saltarono dentro chiedendo asilo migliaia di persone. Lasciò correre la voce che chi voleva poteva andarsene da Cuba, salpare liberamente per gli Stati uniti, diede anche libera uscita dalle patrie galere perché le zattere si riempissero di un assortito campionario di umanità da spedire in Florida. Così costrinse Jimmy Carter. Un genio. Sta di fatto che se l’accordo migratorio non fosse arrivato, l’Avana si sarebbe svuotata: tutti volevano scappare dal Paradiso. Raccontano da laggiù che la sera di venerdì, dopo che Raúl ha letto il comunicato in tv con la notizia della morte di Fidel e dalle discoteche improvvisamente chiuse del quartiere Vedado si sono riversati in strada centinaia di ragazzi incerti, in attesa degli eventi, a un certo punto è passato davanti al Salon Rojo dell’Hotel Capri un vecchio carro funebre riconvertito in taxi, uno dei tanti trabiccoli che circolano all’Avana da quando Raul ha liberalizzato i piccoli mestieri privati. Dalla folla si è alzata una voce maschile: “Pòrtatelo via!”. Raccontano di risate soffocate. Poi silenzio.

Di più su questi argomenti: