La saga “The generals” e la scelta di Trump

Paola Peduzzi

La risposta di un militare è solo una: “Yes, Mr President”. Ma Trump a chi farà la domanda d’assunzione? La storia di chi si posiziona, ora c’è anche Petraeus, e l’eredità dei generali-intellettuali alle prese con il terrorismo.

Milano. Se a un militare chiedi di servire il suo paese, la risposta è soltanto una: “Yes, Mr President”, dice David Petraeus, il generale-intellettuale che inventò, ormai quasi dieci anni fa, il “surge” iracheno che portò a una fase di stabilità nel paese invaso dagli americani e dagli alleati volenterosi. Oggi Petraeus è un pensionato un po’ disperato, s’è giocato reputazione e carriera per una donna muscolosa e inettitudini tecnologiche (molto basilari: ha usato male Gmail), ma dice di essere pronto a lavorare per Donald Trump, se mai il presidente eletto dovesse chiedergli di farlo. Come si sa, Trump per ora sembra orientato più sul nome di James Mattis, dice che sta prendendo in considerazione “molto molto sul serio” la possibilità di nominarlo al Pentagono, e aggiunge che pensa che questo sia il momento giusto per avere un generale a capo della Difesa. Così, mentre i commentatori cercano di capire quale sia la logica che ispira il neo presidente nella formazione del suo governo, se ce n’è una, il Washington Post ironizza: non è che Trump ne sta vedendo troppi, di generali?

 



 

La notizia positiva è che, tra le evoluzioni che questi generali hanno avuto nella loro carriera e tra le schermaglie da primedonne che inevitabilmente ora diventano visibilissime, Trump sta facendo riferimento a un gruppo di militari che rappresenta un’élite per lo più illuminata del mondo militare americano. Petraeus certamente è il leader di questa élite, per quanto l’ingenuità sulla sua vita personale lo abbia un po’ sbiadito: ancora oggi le sue analisi sono tra le più seguite e citate, perché è evidente che sa di cosa parla. In questi ultimi anni, quando è apparso chiaro che l’Amministrazione Obama avrebbe protratto il più possibile la sua strategia attendista (è una strategia attendere?), Petraeus è intervenuto più volte mettendo in fila la minaccia del terrorismo dello Stato islamico, quella delle brigate sciite dirette dall’Iran e quella del regime siriano di Bashar el Assad provando a ipotizzare interventi di diversa intensità in Iraq e in Siria. Soprattutto, il generale da sempre insiste sulla necessità di una visione complessiva, rivolta al futuro, che è quella che già fece la differenza in Iraq nel 2006 quando all’aumento consistente di truppe (il surge) fece seguito un progetto politico di “risveglio” della popolazione sunnita contro lo Stato islamico e in asse con gli americani.

Oggi Petraeus conferma – lo ha fatto qualche giorno fa in un’intervista ad al Jazeera – che la lotta al terrorismo è “lo scontro di questa generazione” e che va considerata come una “guerra onnicomprensiva”. Quando si parla di Russia, il generale non pone la questione in termini di stare-con-Putin-o-contro-Putin, in guerra si fa il tifo soltanto per i civili: piuttosto dice di guardare dove gli obiettivi americani e quelli russi convergono e lavorare su quelli, e con la stessa lucidità riconoscere le divergenze. Anche in Siria, Petraeus dice che il ruolo dello Stato islamico e quello di Assad vanno di pari passo, “non si possono far divorziare questi due elementi”, ma in certe fasi è necessario darsi delle priorità, e ora la priorità è lo Stato islamico. Guarda soprattutto a Mosul, Petraeus, perché è in questa città che lui ha forgiato la sua visione della guerra al terrorismo: arrivò in questa città del nord-est iracheno nel 2003, la pacificò “parlando alla gente per strada” e poi decise che quel modello, il dialogo oltre che la forza, dovesse essere applicato anche al resto del paese. Il suo celebre saggio sulla counterinsurgency, che divenne poi il manuale di riferimento dell’allora presidente George W. Bush, spiegava questo approccio “alla strada araba” ed era cofirmato da Mattis, che allora era di base nella provincia irachena di al Anbar – sì, quella del risveglio.

Il gruppo dei generali che ha provato a dare consistenza a una dottrina americana di lotta al terrorismo oltre alla tecnica militare è anche più allargato. Ne fa parte Stanley McChrystal, brusco generale che si giocò il posto in Afghanistan nel primo mandato di Obama a causa di un’intervista pettegola su Rolling Stone, che è comparso nella rosa dei generali papabili, e persino quel Michael Flynn considerato da Trump che, pur oggi più noto per il suo estremo narcisismo e per il fatto che ha soltanto 3 stellette rispetto alle 4 degli altri, si era dotato di un curriculum dignitoso lavorando proprio con McChrystal: insieme uccisero al Zarqawi,  nel 2006. Naturalmente esistono differenze, e la scelta di Trump aiuterà a intendere a che genere di progetto di politica militare aspira. Durante la conversazione al New York Times, Trump ha detto di avere un’idea sulla Siria diversa da quella di chiunque altro. Un giornalista gli ha chiesto: e quale sarebbe? Ha voluto rispondere off the records, così ancora noi non ne sappiamo nulla.

Di più su questi argomenti:
  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi