Usa, Obama prima del tour di addio all'Europa (foto LaPresse)

Ci sono più luci che ombre nell'eredità di Barack Obama

Gianni Castellaneta

Ha dovuto assistere a sconvolgimenti planetari che ne hanno indebolito l’azione riformatrice. Un bilancio.

Sono passati quasi otto anni da quel 20 gennaio 2009, quando Barack Obama si insediò ufficialmente alla Casa Bianca tenendo il suo primo discorso da presidente. Il ricordo del freddo pungente di quella mattinata invernale è ancora vivo quanto l’emozione per assistere a un passaggio di consegne storico: Obama accompagnava George W. Bush fino all’elicottero che partiva da Washington per lasciare il campo al primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti. Erano giorni carichi di aspettative per un “cambiamento” ritenuto davvero “possibile” (lo slogan yes we can resterà scolpito nella storia). Invece, i turbolenti anni che hanno caratterizzato lo scenario internazionale hanno fatto prendere agli eventi una piega piuttosto diversa: dall’Obama con il volto liscio e i capelli scuri siamo passati a un uomo con qualche ruga e i capelli ormai grigi… anzi, quasi arancioni. Un’immagine che rende istantaneamente l’idea dell’esito drammatico di questi due mandati alla Casa Bianca: com’è possibile che le speranze di cambiamento, i sogni di tutta la popolazione americana – e in particolare dei gruppi emarginati – per una maggiore inclusione sociale, siano svaniti all’improvviso e siano stati rimpiazzati dal sorriso compiaciuto di Donald Trump che varca la soglia della Casa Bianca?

 

 
Nelle prossime settimane abbonderanno i giudizi sull’operato di Obama, i bilanci sulla sua presidenza e le analisi che avranno toni di volta in volta agiografici o irrimediabilmente critici. Ci sembra però possibile e doveroso tracciare un profilo equilibrato di ciò che è stato il presidente uscente. Se la parabola che ha caratterizzato la permanenza al potere di Obama è iniziata carica di aspettative, giustificate dalla sua immagine “rivoluzionaria” per il contesto istituzionale americano, ed è invece finita con un’America profondamente divisa e forse ancora incredula per il successo di un vero outsider della politica come Trump, la colpa non è stata tutta sua. La crisi finanziaria globale ha rimesso in discussione il paradigma della globalizzazione, ponendo sotto accusa un modello economico che sembrava ormai essersi definitivamente imposto e in grado di garantire benessere sempre più diffuso. Il fiorire del fondamentalismo islamico, scoperchiato dagli improvvidi tentativi di “esportare la democrazia” compiuti dal predecessore di Obama, ha reso il medio oriente e, di riflesso, l’intero occidente nuovamente instabili. La ricostruzione – quantomeno a livello ideologico e progettuale – dell’impero russo a opera del regime autoritario di Putin, ha riproposto una rivalità che sembrava ormai definitivamente sbiadita in seguito alla conclusione della Guerra fredda, facendo deviare la Russia dalla possibilità di essere un partner affidabile verso la condizione di interlocutore imprevedibile e pericoloso, come dimostrato dall’annessione illegale della Crimea nel 2014.

Barack Obama ha dovuto assistere suo malgrado a tutti questi eventi, che ne hanno inevitabilmente indebolito l’azione riformatrice, sia in ambito domestico sia internazionale. Eppure, non si può dire che i suoi otto anni alla Casa Bianca siano stati un fallimento. Pensiamo all’economia: quale altro paese occidentale, colpito duramente dallo scoppio della crisi finanziaria, è riuscito a risollevarsi altrettanto prontamente e a ottenere livelli di crescita sempre superiori al 2 per cento annuo? Si potrà obiettare che il problema degli Stati Uniti non è la mancanza di crescita ma la crescente diseguaglianza: vero, ma va anche detto che negli Stati Uniti vi è un tasso di disoccupazione molto basso, praticamente quasi prossimo al suo livello fisiologico. Inoltre, non esiste un altro paese in grado di favorire allo stesso modo l’innovazione tecnologica e la ricerca.


Pensiamo anche alle politiche estremamente progressiste in campo ambientale. Sembrava impensabile che gli Stati Uniti, uno dei principali “inquinatori” della Terra dove le lobby petrolifere erano solite avere un potere smisurato, potessero siglare l’Accordo di Parigi per il contrasto al cambiamento climatico e virare con decisione sullo sfruttamento delle energie rinnovabili a discapito degli idrocarburi. E’ vero che i bassi prezzi del petrolio hanno scoraggiato di recente gli investimenti in tecnologie costose come il fracking, ma Obama ha saputo imporre un deciso cambio di rotta, dimostrando una lungimiranza e visione che ormai appartengono sempre più di rado al politico medio, tutto concentrato sul proprio tornaconto elettorale di breve periodo.

 
Obama è stato forse l’ultimo leader dei nostri tempi che ha saputo incarnare la speranza e la possibilità di un futuro migliore, facendo un sapiente uso di questi messaggi in vari modi. I suoi discorsi a Istanbul e al Cairo, grandi esempi di apertura al mondo islamico che gli Stati Uniti avevano messo sotto attacco durante la presidenza Bush, hanno rappresentato i punti più alti della diplomazia del presidente, insieme a un risultato storico – e non sufficientemente considerato – quale l’accordo con l’Iran per lo smantellamento del piano nucleare dopo trentacinque anni di forti tensioni diplomatiche. Da una parte dunque la “forma”, che gli ha permesso di essere insignito nel 2009 di un premio Nobel per la Pace “alle intenzioni”; dall’altra, la “sostanza” di un leader che ha deciso di fare del dialogo, e non più dello scontro, la sua cifra politica e diplomatica. Anche se, va riconosciuto, questa impronta si è a volte tradotta in eccessiva timidezza e incertezza come nel caso della Siria che, abbandonata per troppo tempo al proprio destino, si è trasformata in una polveriera in preda da un lato a un dittatore spietato e dall’altro a fanatici terroristi islamici.


Se invece dovessimo imputare a Obama un insuccesso, paradossalmente questo risiede proprio nella incapacità di sconfiggere le tensioni etniche che ancora oggi sono molto diffuse negli Stati Uniti. Proprio lui, primo presidente di colore che aveva simbolicamente scelto di darsi al golf, sport “wasp” per antonomasia, tralasciando il basket, giocato dai neri nei playground dei ghetti, per veicolare l’immagine di una migliore unione tra i gruppi sociali e la possibilità di una emancipazione per tutti, lascia oggi dietro di sé un’America caratterizzata ancora da divisioni, sulle quali la retorica ruvida di Trump ha avuto buon gioco nel catturare consensi. Non è bastato nemmeno il sostegno della moglie Michelle, genuina esponente della comunità afroamericana di Chicago, a vincere definitivamente le profonde divisioni razziali che costituiscono tuttora una linea di frattura nella complessa società americana.


Concludiamo questo ritratto in chiaroscuro, caratterizzato comunque da molte più luci rispetto alle ombre, con una breve riflessione sul lascito che Obama vorrà affidare all’Europa, un partner importante che però è stato forse un po’ trascurato negli ultimi anni a vantaggio dell’area del Pacifico, più dinamica e promettente a livello economico. Proprio in questi giorni il presidente è in viaggio nel Vecchio continente, e la scelta di recarsi in Grecia e Germania non ci sembra casuale. La culla della civiltà occidentale, oggi economia dissestata, e il leader dell’Europa di oggi, solido ma privo di una vera anima. Siamo certi che Obama, seppur da “anatra zoppa”, sarà in grado di lasciare un ultimo messaggio sferzante, invitando i leader europei a cambiare registro prima che sia troppo tardi e anche dalle nostre parti il populismo prenda il sopravvento. Ecco, se Obama ci lasciasse la capacità di salvare la democrazia liberale dagli estremismi, questa sarebbe probabilmente la sua più bella e grande eredità.