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Il caso Trump, lezione per il “giornalismo obiettivo”

Claudio Cerasa
I media americani hanno sottovalutato l’ascesa del candidato repubblicano ma hanno aperto un bel dibattito su un tema chiave: cos’è la “verità” per un giornale.

In un gustoso articolo uscito giovedì scorso sul Jerusalem Post, il giornale israeliano ha affrontato con arguzia uno dei temi centrali dell’incredibile vittoria americana di Donald Trump: il ruolo dei giornali. Il Jerusalem Post ha notato una straordinaria particolarità del candidato repubblicano, mettendo in rilievo il fatto che il tycoon è stato il candidato che nella storia delle elezioni americane ha collezionato il minor numero di endorsement da parte dei giornali. Tra i maggiori 100 quotidiani, per diffusione, solamente due sono stati quelli che hanno scelto di appoggiarlo apertamente: il Florida Times Union e il Las Vegas Review-Journal  (di cui oggi pubblichiamo l’estratto di un editoriale nella seconda pagina dell’inserto), di proprietà di Sheldon Adelson, magnate dei casinò che ha speso milioni di dollari per sostenere Trump. Che cosa c’entra questo con Israele? C’entra perché anche Benjamin Netanyahu, primo ministro, in tutte le sue campagne elettorali si è ritrovato a fronteggiare “il rivale più odiato possibile: non Hillary Clinton o Isaac Herzog, ma i media”. Non è difficile ricordare il numero di giornali “ostili” finiti nella lista nera di Trump: il New York Times, il Washington Post, l’Huffington Post, Univision, Politico e così via. Il dato interessante di questa campagna non è solo il fatto che la maggioranza assoluta dei giornali americani si sia schierata contro il candidato vincente. C’è qualcosa di più.

 

Il dato più interessante della campagna mediatica riguarda l’identità stessa dei giornali e dei giornalisti. E in particolare riguarda una domanda precisa che a un certo punto della campagna elettorale è passata anche nella testa della direzione del New York Times: oltre ad aver distrutto un sistema politico, non è che Trump ha ridefinito anche il concetto di “giornalismo obiettivo?”. “Trump – ha scritto il 7 agosto Jim Rutenberg sul Nyt – sta testando le norme di obiettività nel giornalismo”.

 

E il problema è evidente, aveva ammesso il giornalista del Nyt: “Se sei un giornalista e ritieni che Donald J. Trump sia un demagogo che gioca con i peggiori istinti razzisti e nazionalisti della nazione e ritieni che potrebbe essere un uomo pericoloso qualora dovesse avere in mano i codici di controllo del nucleare degli Stati Uniti, come diavolo fai a nasconderlo?”.

 

Il New York Times nel corso di tutta la campagna elettorale ha descritto Trump come se fosse un demone pronto a distruggere l’America e il giorno dopo la fine della campagna ha preso atto del suo errore (non del suo giudizio, ma dell’aver sottovalutato il fenomeno Trump) pubblicando un altro articolo parzialmente autocritico in cui ha riconosciuto come i giornalisti mainstream non abbiano capito “l’ampiezza della rabbia che covava nella pancia del sistema americano”. Ma la domanda del 7 agosto di Jim Rutenberg resta ugualmente attuale e vale la pena di rifletterci su: quand’è che un giornale smette di essere obiettivo?

 

In Italia, i professionisti della Verità, risponderebbero dicendo che il giornalista “obiettivo” è quello che scrive in modo “oggettivo”, dicendoti “la verità” e riportandoti i “fatti separati dalle opinioni”. In America, dopo quello stress test chiamato Trump con cui hanno dovuto fare i conti i giornali, risponderebbero in modo diverso e ti direbbero che il giornalista in fondo è come un fotografo: può riportare i fatti nel modo migliore possibile, stando attento a mettere a fuoco un soggetto, ma non può fare a meno di avere una propria angolazione, una propria prospettiva, che non sarà mai oggettiva ma sarà sempre legata alla propria posizione.

 

E qui torniamo alla domanda di cui sopra: quand’è che un giornale smette di essere obiettivo? La campagna elettorale americana, a pensarci bene, non ci dice soltanto che i giornali hanno capito male quello che stava succedendo negli Stati Uniti ma ci dice qualcosa di più: ci dice che i giornali hanno messo in campo una loro faziosità, una loro prospettiva, in modo deliberato, esplicito, alla luce del sole, e questo, da un certo punto di vista, gli ha permesso di sbagliare ma di restare credibili anche nel rapporto con i propri lettori. E qui arriviamo all’Italia. Giovedì scorso, su questo giornale, Luciano Capone ha raccontato il contenuto di una ricerca elaborata dal professor Luigi Curini, associato di Scienza politica all’Università Statale di Milano, e di Sergio Splendore, ricercatore nello stesso ateneo. Lo studio si intitola “The ideological proximity between citizens and journalists and its consequences” e Curini e Splendore “hanno mostrato con i dati quanto sia profondo il solco ideologico tra media e persone comuni, tra i concetti veicolati dai giornalisti e le convinzioni delle persone, e quanto questo divario sia all’origine della sfiducia dei cittadini nei confronti della stampa”. Non è facile trovare la chiave per colmare “il solco ideologico tra media e persone comuni” ma se c’è qualcosa che i giornali e i giornalisti italiani dovrebbero imparare dalle elezioni americane è questo: i giornali possono sbagliare le previsioni, e possono sbagliare anche a percepire il vero umore di un paese, ma non possono far finta di essere obiettivi, di non schierarsi, di essere neutrali. Un giornale che finge di essere neutrale è un giornale che rischia di non essere credibile. Un giornale che ti racconta da che punto di vista osserva il mondo è un giornale che può sbagliare inquadratura ma che offre al suo lettore uno strumento fondamentale: ti spiega da che parte ha scelto di sistemare la propria macchina fotografica e ti offre non la verità ma più semplicemente, in modo trasparente, il proprio punto di vista. In America Trump ha ridefinito il perimetro del “giornalismo obiettivo”. Per qualcuno potrebbe essere una buona occasione per rifletterci su, anche in Italia.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.