Niall Ferguson (foto via Facebook)

La reazione dell'uomo bianco. Intervista a Niall Ferguson

Marco Valerio Lo Prete
L’insostenibilità del pol. corr., gli errori occidentali sull’immigrazione, il trait d'union tra l’insofferenza dei bianchi americani e il referendum sulla Brexit, capitalismo e finanza. Parla lo storico Niall Ferguson: “L’Europa fa male a gongolarsi per il disastro dei due candidati alla Casa Bianca”.

New York, dal nostro inviato. “Sono appena stato in Cina, dove le élite locali mostrano un qualche compiacimento per i guai della democrazia americana che il voto della prossima settimana dovrebbe dimostrare. In Europa, percepisco un sentimento simile, di intima soddisfazione, come se i mali altrui ridimensionassero quelli del Vecchio continente. Io non riesco nemmeno a esprimere quanto sia insoddisfatto da Donald Trump e da Hillary Clinton, tuttavia credo che in particolare voi europei dovreste gongolare meno”, dice al Foglio Niall Ferguson, uno dei più celebri storici mondiali del capitalismo e della globalizzazione, nato a Glasgow in Scozia, oggi professore a Stanford dopo dodici anni di insegnamento a Harvard. “Una vittoria della Clinton vorrebbe dire un proseguimento dello status quo per l’America: più debito pubblico, più regolamentazione per l’economia e la continuazione dello stallo tra Casa Bianca e Congresso. Una vittoria di Trump vorrebbe dire una forma di cambiamento decisamente rischiosa.

 

Detto ciò, mettendo da parte il mio personale pessimismo su entrambi i candidati, gli osservatori internazionali dovrebbero sforzarsi di riconoscere come questo modello straordinario di democrazia continui a funzionare: lo vediamo al livello delle elezioni del Congresso, al livello degli stati, per non parlare dell’economia. Il fatto che la ripresa dopo la crisi sia stata così forte negli Stati Uniti, vorrà dire o no qualcosa sulle istituzioni di questo paese? Vorrà dire o no qualcosa che il sistema bancario qui si regge di nuovo sulle sue gambe, mentre in Europa e in Italia gli istituti di credito ancora barcollano? Aggiungo che il Vecchio continente sta maturando una congenita avversione al rischio che è foriera di ulteriore stagnazione: colpa dell’evoluzione tentacolare del suo welfare, dell’invecchiamento demografico e del progetto comunitario che ha ridotto la concorrenza virtuosa tra gli stati nazionali”.

 

“La sclerosi minaccia ogni forma di competizione in Europa – osserva Niall Ferguson – mentre negli Stati Uniti la stessa competizione rischia a causa di alcuni monopoli, penso a Facebook e Google, facilitati per paradosso dall’innovazione. Detto ciò, quella americana è una democrazia in salute – prosegue. Piena di energie, anche se a volte troppo feroce e senza peli sulla lingua per gli standard europei. Dopo il voto di martedì prossimo, sia le élite democratiche sia quelle repubblicane avranno compreso sulla loro pelle che occorre una qualche forma di rinnovamento, tanto nell’anagrafe che nei contenuti. Nel 2020 potremo già vedere i risultati positivi di questa riflessione”.

 

Il capitalismo e la finanza, per usare un eufemismo, non godono di buona stampa nemmeno qui. La crisi finanziaria è alle spalle, ma nel discorso pubblico avanzano le tesi di chi ritiene il mercato intrinsecamente generatore di diseguaglianza e dunque insostenibile. “La finanza sarà sempre sotto attacco, d’altronde lo è stata storicamente fin dai tempi dei Medici a Firenze. Poche persone che muovono tanta ‘ricchezza di carta’, come si ripete in maniera caricaturale da più parti, non possono ispirare simpatia. Detto ciò, vogliamo fare a meno delle banche? Vogliamo negare che la finanza sia stata uno dei motori irrinunciabili dello sviluppo umano, cui tutti ricorriamo per comprare un’auto, una casa o avere a prestito un capitale da investire? La diseguaglianza non c’entra con la finanza, c’entra con la globalizzazione, con l’innovazione tecnologica e con gli incredibili insuccessi del nostro attuale sistema educativo. Si discuta pure di come migliorare tutto ciò, ma tenendo a mente che se anche per ipotesi domani rapissimo tutti i miliardari del pianeta e li depredassimo delle loro ricchezze, la situazione di certe periferie europee o della classe media americana non migliorerebbe nemmeno un po’”.

 

Il New York Times, non di certo un pericoloso strumento dei suprematisti bianchi, ancora questa settimana ha scritto che la crisi d’identità dell’uomo bianco ha molto a che fare con la situazione elettorale americana, con quanto accaduto in Europa con la Brexit e infine con l’avanzata di partiti nazionalisti e movimenti di protesta ovunque nel mondo. Cosa ne pensa l’autore del libro “Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà”? “Se oggi in America votassero i soli bianchi, Trump vincerebbe – dice Ferguson – Se votassero soltanto i bianchi di sesso maschile, Trump stravincerebbe. Se votassero soltanto i bianchi di sesso maschile e senza laurea, Trump conquisterebbe ogni singolo stato. Ciò a dimostrazione di come effettivamente questo voto sia polarizzato in termini di etnia, genere e classe sociale di appartenenza. Il candidato repubblicano è riuscito effettivamente a catalizzare molte rimostranze dei bianchi americani. Trump riveste questo malcontento di ragioni economiche, ma io ritengo che tanta parte della sua popolarità sia dovuta al fatto che egli non teme di usare toni considerati più o meno razzisti, che sia anti femminista e soprattutto anti politicamente corretto”.

 

Secondo Ferguson, questo è il vero trait d’union tra l’insofferenza dei bianchi americani e il referendum dello scorso giugno con cui gli inglesi hanno votato per uscire dall’Unione europea: “E’ la reazione di una fetta importante della società che ha la sensazione che qualcuno abbia scelto di rivoltarle il mondo contro. D’altronde in cosa consiste all’ingrosso il progetto progressista se non nel fatto di rendere le nostre società un po’ meno favorevoli all’uomo bianco medio che tanto se ne era avvantaggiato finora? Non ci possiamo sorprendere se oggi assistiamo al tentativo multiforme di combattere tale progetto”.

 

A questo punto Ferguson, che abbiamo incontrato nella sede della New York Historical Society di cui lui è membro, ci tiene a fare una distinzione tra ciò che sta accadendo nella sfera economica e in quella culturale. “I fautori tecnocratici della globalizzazione diranno che l’economia funziona meglio se crescono commercio, flussi di capitali e di persone tra gli stati. Dal punto di vista globale, è giusto: mai così poche persone come oggi sono vissute in stato di povertà sul pianeta. Uno storico deve ammettere tuttavia che in questo processo ci sono anche degli sconfitti nelle società occidentali. Aggiungo però che molto è stato fatto per aiutare questi sconfitti, penso per esempio ai livelli di welfare pubblico che abbiamo raggiunto e che solo vent’anni fa sarebbero stati ritenuti inconcepibili”. Poi “c’è uno choc culturale che si aggiunge a quello economico e che è dovuto all’immigrazione. Penso al Regno Unito: quando io sono nato in quel paese, nel 1964, l’immigrazione era quasi a zero, poi nel giro di qualche decennio siamo arrivati a 300.000 ingressi stabili dall’estero ogni anno. Se di fronte a cotanto cambiamento non fosse sorta qualche obiezione da parte dei nativi, mi sarei stupito. Aggiungo che su questo le élite politiche e culturali avrebbero potuto operare diversamente e meglio, stipulando con gli immigrati una sorta di patto per l’assimilazione ad alcuni valori fondanti delle nostre democrazie. E’ stata scelta, invece, la via folle del multiculturalismo, che inneggiando al mantenimento della diversità non può che alimentare certe ansie”.

 

Ancora una volta l’Europa, sul punto, è in una situazione peggiore degli Stati Uniti, ragiona lo storico scozzese: “Il Vecchio continente ha scelto una politica estera non interventista e ossessionata dai precedenti storici, come la guerra americana in Iraq. Risultato? Oggi il mancato intervento militare in Siria sta causando un numero maggiore di morti e conseguenze peggiori in termini di spostamento forzato di milioni di persone di quanto non abbia fatto la guerra in Iraq. Dopodiché la stessa Europa ha rifiutato ogni ipotesi di stabilizzazione dei regimi a essa confinanti, ha lasciato che il Nordafrica e il medio oriente andassero in malora, salvo poi dirsi pronta ad accogliere tutti quelli che fossero fuggiti, senza che per loro ci fosse nemmeno la garanzia di un lavoro e di una vera integrazione. E senza curarsi di un piccolo precedente storico: la mancata assimilazione di numeri molto inferiori di immigrati e rifugiati che erano arrivati negli anni 90. Insomma, l’èra Merkel sarà ricordata come un terribile disastro da questo punto di vista”.

 

Ferguson una volta ha scritto che “il più grande pericolo per la civiltà occidentale non viene dalle altre civiltà ma dalla nostra stessa pusillanimità, e dall’ignoranza della storia che la alimenta”. Almeno sul tema, conclude lo storico, gli Stati Uniti rischiano di fare peggio dell’Europa: “Vedo infatti un grave rischio: mi riferisco all’avanzata del politicamente corretto negli atenei di questo paese. Innanzitutto perché, ogni volta che censuriamo idee che riteniamo ‘minacciare’ la nostra tranquillità, tradiamo la missione dell’università che è quella di educare al pensiero critico. In secondo luogo perché gli alfieri del politicamente corretto sembrano propugnare tutte le forme di diversità, tranne la diversità ideologica: non è un caso se il 90 per cento dell’accademia statunitense è dichiaratamente liberal e di sinistra. L’effetto congiunto di queste due forme di involuzione fa sì che oggi, in molte università americane, sia possibile seguire corsi su ‘Le emozioni nella letteratura femminile dell’Australia contemporanea’, per esempio, e sia difficile trovare corsi di storia dedicati alla Costituzione degli Stati Uniti, alla Guerra civile o a George Washington – dice lo studioso – Così facendo, come pensiamo di trasmettere alle future generazioni tutto ciò che di straordinario abbiamo fatto e stiamo ancora facendo in occidente?”.