La bandiera dell’Europa sventola davanti a Westminster (foto LaPresse)

La tregua tra Carney e May è un segnale ai banchieri centrali

Alberto Brambilla
Alcuni politici favorevoli alla Brexit avevano chiesto le dimissioni del governatore della Bank of England perché l'istituto aveva prodotto stime a loro dire negative sulle conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Ue. Il problema dell'indipendenza delle banche centrali.

Roma. Dopo prolungate speculazioni di stampa sulle dimissioni anticipate di Mark Carney da governatore della Bank of England e di rumor sui dissidi con il primo ministro Theresa May, Carney ha annunciato ieri, dopo una visita a Downing Street, la decisione di estendere il suo mandato fino al giugno 2019 – un anno extra rispetto alla scadenza prevista a metà 2018 – per garantire un’uscita morbida del Regno Unito dall’Unione europea dopo il voto referendario di giugno per la Brexit. Durante la mattinata il primo ministro Theresa May, tramite la sua portavoce, aveva fatto sapere che Carney è “assolutamente” la persona migliore per l’incarico, auspicando una sua permanenza fino al 2021, ovvero un triennio in più rispetto alla scadenza naturale del suo mandato quinquennale.

 

Quella del governo inglese appare una ritirata strategica dopo che nelle passate settimane Carney era stato messo sotto pressione dal partito Conservatore, dai politici tifosi della Brexit e da alcuni media che propalavano indiscrezioni insidiose per la permanenza di Carney alla guida della “Old Lady” di Threadneedle Street. Carney, di nazionalità canadese, ex banchiere di Goldman Sachs, resterà dunque in carica il tempo necessario a gestire almeno la fase più turbolenta del post-Brexit, quella dei negoziati tra Londra e Bruxelles che durerà due anni a partire dal marzo 2017, quando May attiverà la procedura di recesso volontario e unilaterale dall’Ue (art. 50 del Trattato sull’Unione europea).

 


Mark Carney (foto LaPresse)


 

Carney era finito sotto il fuoco di alcuni politici favorevoli alla Brexit – come ad esempio l’ex Cancelliere di Margaret Thatcher, Nigel Lawson, o il deputato euroscettico Daniel Hannan – che ne invocavano le dimissioni perché la Bank of England (BoE) aveva prodotto stime a loro dire negative sulle conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Ue. Questo fine settimana il Sunday Times ha rincarato la dose scrivendo che Carney non è a suo agio con il premier May e che aveva un rapporto migliore con l’ex Cancelliere dello Scacchiere George Osborne – che lo reclutò nel 2013 – anziché con il suo successore Philip Hammond. Carney di certo non si meritava tanta attenzione negativa, dal momento che all’indomani della Brexit mentre David Cameron si dimetteva da premier e i politici tifosi della Brexit faticavano a manifestarsi sui media, fu l’unico a calmare i mercati e a rassicurare la popolazione con un comunicato risoluto e dai toni non catastrofici – “da manuale”, come ha notato niente meno che il suo predecessore Mervyn King in un’intervista al sito centralbanking.com.

 

La portata dei rumor di stampa sull’uscita di Carney è stata probabilmente esagerata, come ha notato l’Economist, ma la questione ha comunque catalizzato i mercati e ha contribuito a deprimere la sterlina: per la prima volta in oltre un decennio l’indipendenza della Bank of England dalla politica è stata messa in discussione. L’indipendenza  della Bank of England dal Tesoro britannico nella gestione della politica monetaria attraverso la regolazione dei tassi d’interesse è un principio garantito dal 1997 (dall’allora neoeletto governo laburista) che alcuni membri di spicco del partito Conservatore – tra cui la stessa May – hanno intaccato eccome di recente.

 

William Hague, ex segretario di stato per gli Affari esteri, conservatore, ha scritto sul Telegraph che “i banchieri centrali collettivamente non capiscono che cosa sta accadendo. Devono alzare i tassi o andranno incontro all’apocalisse”. Mentre May criticava gli effetti perversi della politica espansiva della BoE, tra Quantitative easing e bassi tassi d’interesse, che ha arricchito i già ricchi e fatto soffrire i più poveri, e proprio per questo “un cambiamento ci sarà e noi lo garantiremo”, aveva detto May.
Carney aveva replicato dicendo di non accettare ordini dai politici su quali siano i doveri di un banchiere centrale. Volutamente o meno, Carney aveva così difeso l’intera categoria dei banchieri centrali, diventata negli anni sempre più influente man mano che le autorità politiche a varie latitudini faticavano a dare risposte efficaci alla crisi economica.

 

A settembre, il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump, ha accusato il capo della Federal Reserve, Janet Yellen, di tenere il costo del denaro artificialmente basso per favorire l’uscita del presidente democratico Barack Obama – “una scelta molto politica”, secondo Trump, il quale se eletto potrebbe far sloggiare Yellen dal posto di comando della Banca centrale più potente del pianeta.

 

Lo stesso mese Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, è stato messo sulla graticola durante un’audizione al Bundestag, la Dieta tedesca, da parte di una truppa di parlamentari vicini al ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, apertamente contrario alla prosecuzione del programma di stimoli e alla politica di tassi bassi di Draghi che riduce, secondo i critici, le possibilità di profitto delle banche e delle assicurazioni. Se l’annuncio ufficiale di Carney a lasciare il posto alla metà 2019 (pochi mesi dopo, a novembre, scadrà il mandato di Draghi) ha fatto rientrare la querelle con il governo britannico, non si può dire conclusa allo stesso modo la disputa in corso tra politici e banchieri centrali.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.