Ebrei in preghiera davanti al Muro del pianto (foto LaPresse)

Il voto dell'Unesco ricorda a Israele il suo rischio esistenziale (e geopolitico)

Marco Valerio Lo Prete
La decisione di cancellare le radici giudaico-cristiane dei luoghi santi di Gerusalemme è "l'inizio della fine", scrive Haaretz. L'impossibile "strategia perfetta" per salvare lo stato ebraico e la ritirata degli Stati Uniti dal medio oriente sembrano confermarlo - di Marco Valerio Lo Prete

Roma. Mercoledì il quotidiano della sinistra israeliana, Haaretz, ha pubblicato un intervento di Michael Laitman, professore di Ontologia e uno dei più noti cabalisti del pianeta, così intitolato: “La decisione dell’Unesco, cioè l’inizio della fine dello stato di Israele”. La decisione dell’organizzazione delle Nazioni Unite di riconoscere il Monte del Tempio, a Gerusalemme, come luogo di culto esclusivo dell’islam, non avrà effetti pratici nel breve termine, scrive Laitman, ma “la negazione della connessione tra l’ebraismo e il Monte del Tempio, incluso il Muro occidentale (o Muro del Pianto, ndr), indica che il mondo ritiene che noi non apparteniamo a questa terra. L’implementazione pratica di questo punto di vista non è troppo di là da venire”. Uno scenario angoscioso e apparentemente estremo, visto che Israele oggi è all’apice del suo riconoscimento internazionale come potenza militare e con un’economia vitale. Tuttavia uno scenario giudicato non irrilevante nemmeno da laicissimi analisti delle cose geopolitiche. Su questa linea, per esempio, si attesta un saggio appena pubblicato da George Friedman – fondatore del pensatoio Geopolitical Futures e presidente fino al 2015 di Stratfor, una delle più note società private di analisi d’intelligence – che prende le mosse proprio dal voto dell’Unesco.

 

Friedman inizia spiegando perché oggi lo stato ebraico non è al centro dell’attenzione nell’area mediorientale. Perché “Israele è la prima potenza militare nella regione” e perché “sempre nella regione sono in corso intensi conflitti bellici di altro tipo”, ergo “perfino i paesi islamici hanno molte più cose di cui preoccuparsi che non di Israele”. Se “la posizione strategica di Gerusalemme non è mai stata così solida”, ciò si deve nello specifico al trattato di pace con l’Egitto (la cui leadership comunque è impegnata di suo nella lotta all’islamismo politico), alla relativa debolezza della Giordania la cui sicurezza dipende anche dal ruolo “cuscinetto” di Israele, al fatto che la Siria è impegnata in una guerra civile che dura da anni e infine si deve alla relativa stabilità del Libano all’interno del quale Hezbollah è presa piuttosto dal suo sostegno militare ad Assad.  Questo almeno per ciò che riguarda i paesi confinanti. Quanto alle altre tre potenze regionali, Arabia Saudita, Turchia e Iran, “l’ideale strategico per Israele è che una di loro si assuma la responsabilità non solo per la Siria, ma anche per quanto accade in Iraq ed Egitto. O che gli Stati Uniti facciano la stessa cosa”. Se ciascuna delle tre potenze regionali al momento ha le proprie difficoltà interne (anche se Riad è la candidata più papabile per un’intesa), gli Stati Uniti da anni hanno scelto la strada del “leading from behind”, cioè del relativo disimpegno. Come aggiunge Laitman su Haaretz, “se la Clinton fosse eletta accelererebbe  questo processo di disimpegno di Washington con Israele che Obama ha avviato. Se Trump fosse eletto, accadrebbe lo stesso, seppure a una velocità inferiore”.

 

“Israele dunque è impegnato in un complesso gioco di diplomazia regionale, dove nessuno è davvero certo della propria posizione, figurarsi di quella altrui – scrive Friedman – Israele sta sfruttando tale gioco diplomatico per tenere a distanza di sicurezza i pericoli regionali. E’ un gioco puramente tattico, ma a volte l’unica strategia è la tattica”. Il problema è che “prima o poi lo stato ebraico tornerà al centro dell’attenzione”. Ecco perché la spia del voto dell’Unesco diventa allarmante. Ormai da decenni Gerusalemme è tutt’altro che popolare nelle Nazioni Unite, ma il fatto che così tanti paesi abbiano scelto di votare una mozione contro lo stato ebraico, o al massimo di astenersi, dimostra “fino a che punto Israele sia diventato impopolare”. A impressionare Friedman, in particolare, è la scelta del governo francese che prima ha addirittura sostenuto la mozione, salvo poi limitarsi all’astensione. Non solo: anche nei sei paesi che hanno votato contro la mozione, basterebbero lievi cambiamenti politici per dare lo sfogo a “un sentimento anti israeliano che ha raggiunto livelli straordinari”, vedi per esempio in Olanda o nel Regno Unito. Se la situazione in medio oriente si dovesse deteriorare, “Israele avrà bisogno di aiuto e questo aiuto dipenderà dal mood politico dei possibili alleati”. Se per la maggior parte degli stati del mondo non esiste “un pericolo esistenziale”, di vita o di morte, per Israele invece tale pericolo esiste, conclude Friedman. L’attuale posizione di forza di Gerusalemme può essere garantita in futuro soltanto da “una strategia perfetta, che è per definizione improbabile da attuare”, il tutto per di più con gli Stati Uniti in ritirata dal medio oriente e l’Europa venata di antisemitismo. Per questa ragione il voto dell’Unesco non va sottovalutato. 

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