Un ebreo davanti al Muro del Pianto di Gerusalemme (foto LaPresse)

L'antisemitismo congenito dell'Unesco

Matteo Matzuzzi

Nel 2009 il ministro della Cultura egiziana, Farouk Hosni, l’egiziano Hosni sfiorò l’elezione per dirigere l’Unesco. "L’odio per Israele è nel nostro latte materno”, disse, irrobustendo tale linea ideologica con misure pratiche a tutti comprensibili: se mai avesse trovato libri israeliani nella biblioteca di Alessandria – disse – “li brucerò io stesso”.

Roma. Irina Bokova, direttrice generale dell’Unesco e segretario generale dell’Onu mancata, fa la voce grossa e prende le distanze dall’Agenzia che lei stessa dirige. Fa pubblicare comunicati in cui spiega che “il patrimonio di Gerusalemme è indivisibile”  aggiungendo che “negare, nascondere o voler cancellare una o l’altra delle tradizioni ebraica, cristiana o musulmana significa mettere in pericolo l’integrità del sito”. Bokova conosce meglio di chiunque altro l’orientamento manifestamente antisemita dell’Unesco, anche perché è grazie alla drammatica spaccatura che si concretizzò (proprio sull’accusa di antisemitismo al principale candidato alla carica) sette anni fa all’atto di eleggere il nuovo direttore generale che lei ha potuto conquistare l’agognata poltrona. Il favorito di allora, da tempo annunciato, era il ministro della Cultura egiziana, Farouk Hosni, che già dieci anni prima aveva fatto il possibile per andare a dirigere l’Unesco, senza riuscirci.

 

Poteva contare su un appoggio trasversale: Unione africana, Organizzazione della conferenza islamica e tanta Europa (Italia compresa). L’unica (debolissima) alternativa, più che altro di bandiera, era quella dell’austriaca Benita Ferrero-Waldner. Toccava a Hosni anche in virtù del solito e burocratico meccanismo della rotazione: dopo un giapponese toccava a un arabo. Tutto era pronto, sennonché iniziarono a essere resi pubblici i pensieri del promesso capo della grande Agenzia mondiale della cultura, e i giochi si riaprirono. “L’odio per Israele è nel nostro latte materno”, disse, irrobustendo tale linea ideologica con misure pratiche a tutti comprensibili: se mai avesse trovato libri israeliani nella biblioteca di Alessandria – disse – “li brucerò io stesso”.

 

Accortosi d’averla fatta grossa, Farouk Hosni si corresse. Disse d’essere stato frainteso, male interpretato e perfino mal tradotto. Si scusò, precisando che la sua elezione avrebbe rappresentato il ponte (di pace, ça va sans dire) tra occidente e oriente, tra mondo cristiano e mondo islamico. Insomma, avrebbe governato con sapienza ed equilibrio l’istituzione che Hosni Mubarak voleva accaparrarsi grazie anche alle intese bilaterali con diversi paesi dell’Unione europea. Eppure, proprio Hosni aveva vietato la circolazione in Egitto di “Schindler’s List”, il film sull’Olocausto diretto da Steven Spielberg. Un caso? Per niente, visto che quella fu solo la prima pellicola con riferimenti a Israele e alla persecuzione ebraica fatta sparire dai cinema egiziani. E sempre lui aveva autorizzato la traduzione e la vendita dei “Protocolli dei savi di Sion” e del “Mein Kampf” hitleriano, come risposta alla “diabolica abilità” degli ebrei nel “diffondere menzogne”.

 

Bernard-Henri Lévy, Claude Lanzmann ed Elie Wiesel lanciarono un appello internazionale contro la candidatura di Hosni, tentando di sensibilizzare le cancellerie occidentali, costringendole a cercare qualcun altro che non avesse detto – come aveva fatto nel 2001 il ministro della Cultura del Cairo – che “Israele non ha mai contribuito alla civilizzazione, in nessun’epoca, perché non ha mai fatto altro che appropriarsi del bene altrui” e che “la cultura israeliana è una cultura inumana, aggressiva, razzista, pretenziosa, che si basa su un principio semplicissimo: rubare quello che non le appartiene per poi pretendere di impradronirsene”.≠Nel 1977 era addirittura in opposizione ad Anwar al Sadat, presidente egiziano poi assassinato da un estremista islamico: Hosni si dichiarò infatti “nemico accanito” d’ogni processo che potesse portare al riconoscimento diplomatico reciproco tra i governi di Gerusalemme e del Cairo.

 

Lévy, Lanzmann e Wiesel sostenevano che “il signor Farouk Hosni non è degno di tale ruolo; il signor Hosni è il contrario di quello che è un uomo di pace, di dialogo e di cultura; il signor Hosni è un uomo pericoloso, un incendiario dei cuori e degli spiriti; resta solo poco, pochissimo tempo per evitare di commettere il grave errore di elevarlo a uno dei più eminenti incarichi. Invitiamo quindi la comunità internazionale a risparmiarsi la vergogna che rappresenterebbe la nomina di Hosni, già data come quasi acquisita dall’interessato, a direttore generale dell’Unesco”. Nonostante ciò, a dispetto delle decine di articoli che ovunque nel mondo ritraevano il ministro della Cultura egiziano come un prode censore di testi e libri non ortodossi, l’urna gli assegnò ben ventinove dei cinquantotto voti del Comitato esecutivo chiamato a raccomandare all’Assemblea generale il profilo del nuovo direttore generale. E così andò avanti per cinque giorni, fino a quando il fronte dei paesi che giudicavano inaccettabile la designazione di Hosni riuscì a far prevalere la bulgara Irina Bokova. D’un soffio: 31 a 27 al quinto e definitivo scrutinio.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.