Un musulmano celebra il compleanno di Maometto (foto LaPresse)

Potenzialità e limiti di un approccio naturalistico al terrorismo islamico

Gilberto Corbellini
Esistono diversi approcci alle origini e cause del terrorismo e alla disponibilità all’autosacrificio. Da una parte c’è chi sostiene che la religione islamica sarebbe la principale causa della disponibilità al martirio. Dall’altra c’è chi dice che il Califfato islamico e il terrorismo suicida intercettino schemi cognitivi ed emotivi umani che sono sempre esistiti.

Nel maggio dell’anno scorso il Pentagono assegnava 3,2 milioni di dollari a due ricercatori dell’Università di Chicago, l’esperto di terrorismo Robert Pape e il neuropsichiatra Jean Decety, per un progetto intitolato “La costruzione neurologica e sociale del martirio”. Cioè per studiare il profilo neurologico di persone disposte a immolarsi per una causa religiosa o etnico-politica. Usando le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale si vuole tentare di capire in che modo il cervello elabora e risponde agli appelli al martirio divulgati in rete dallo Stato islamico e gruppi affini. I materiali di propaganda catalizzano comportamenti terroristici in esemplari umani con caratteristici profili neuropsicologici, dovuti a una particolare combinazione di fattori genetici, epigenetici e ambientali. Quello che si aspettano di vedere Pape e Decety è l’accensione o meno di particolari aree cerebrali – a fronte dell’esposizione – predittive di una suscettibilità di alcuni individui a diventare terroristi, o una loro immunità contro il fanatismo.

 

Esistono diversi approcci alle origini e cause del terrorismo e alla disponibilità all’autosacrificio. La questione più discussa è quale ruolo svolga l’ideologia religiosa. Da una parte c’è chi sostiene che la religione islamica, in qualche modo e magari attraverso una devastazione patologica della mente umana, sarebbe la principale causa della disponibilità al martirio. Dall’altra c’è chi dice che il Califfato islamico e il terrorismo suicida intercettino schemi cognitivi ed emotivi umani che sono sempre esistiti, e che in tempi e contesti diversi hanno già dato luogo a fatti drammatici. Che talvolta sono stati chiamati rivoluzioni o lotte di liberazione (americana, francese, bolscevica, eccetera).

 

Il più strenuo difensore dell’estraneità dell’islam, in quanto religione, è l’antropologo Scott Atran che, per le sue posizioni, è accusato anche da alcuni esponenti dell’ateismo militante, come Sam Harris o Jerry Coyne, di assolvere quella religione dall’essere all’origine delle credenze sul jihad, il paradiso di Allah, il disprezzo per gli infedeli, eccetera, ovvero di essere intellettualmente disonesto. Lo accusano di incolpare anche lui l’occidente. Ma le sue ricerche producono dati empirici utili a capire le dinamiche del fenomeno.

 

Ai fenomeni terroristici Atran si è dedicato sin dai tempi dell’intifada palestinese, per identificare quali elementi del paesaggio culturale, inclusa la religione, rendono possibile e vantaggioso – rispetto al contesto – il sacrificio della vita con lo scopo di causare danni e indurre terrore presso coloro che non appartengono alla proprio comunità religiosa (o anche solo etnica). Egli usa una teoria sulla natura della religione come fenomeno culturale, esposta nel libro “In God We Trust” (2002), dove ne spiega l’emergere quale sottoprodotto (privo di funzionalità adattative) a partire da profili cognitivi e emotivi umani evoluti per sopravvivere come cacciatori-raccoglitori delle savane pleistoceniche. Nel cosiddetto Periodo Assiale, cioè tra l’800 e il 200 prima dell’èra volgare, le religioni hanno fornito alle società umane, attraverso l’invenzione di divinità molto potenti, mezzi culturali per cementare società che diventavano sempre più difficili da governare ricorrendo agli spiriti e ai rituali usati fino a lì. Da quel momento la storia è cambiata.

 

Atran ha condotto centinaia di interviste a combattenti su diversi fronti (curdi peshmerga, militanti Isis, autori di attentati terroristici, eccetera) per identificare i profili psicologici che ne caratterizzano la disponibilità a combattere e sacrificarsi per “valori sacri”. Ne sono usciti indicatori per misurare il livello di coinvolgimento dei combattenti nei valori sacri del proprio gruppo, rispetto a quelli del nemico, e di fusione della propria identità con quella del gruppo. La forza spirituale delle persone disposte a sacrificarsi si correla anche con la percezione della “formidabilità fisica sul campo di battaglia”. Egli pensa che l’occidente non dovrebbe concentrarsi solo sulla sicurezza e le risposte militari, ma anche prestare attenzione ai bisogni psicologici e sociali dei giovani che non riescono a entrare in sintonia con i valori liberali dell’occidente. Prima che essi si sentano attratti dallo Stato islamico.

 

Nelle sue spiegazioni filtrano elementi di relativismo, di critica ideologica dell’occidente, nonché pregiudizi teorici sulla validità di alcuni approcci evoluzionistici che riconoscono nelle religioni la presenza di specifiche strutture comportamentali che sono funzionali alla vita sociale. Comunque sia l’approccio naturalistico, cioè condotto usando concetti, teorie e metodi delle scienze empiriche, sta prendendo sempre più piede nel mondo della ricerca accademica, ed è sempre più normale che chi si occupa delle dimensioni politiche, cioè di correlati ambientali come le forme di governo, il peso della religione e della religiosità, i livelli di diseguaglianza e la diffusione della povertà, l’assenza di diritti, le forme dei rapporti familiari e le violenze domestiche, gli abusi sessuali, collabori con psicologi, antropologi e neuroscienziati che studiano i profili di personalità e i fattori biologici che rendono adattativi comportamenti come il martirio o i cambiamenti indotti da specifici ambienti nel cervello in sviluppo e che lo predispone alla manipolazione da parte dei leader delle organizzazioni terroristiche, come per esempio quelle islamiche che al momento sono di principale interesse.

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