Bombe in un resort in Thailandia (foto LaPresse)

Nel sud-est asiatico c'è un'altra estate di terrore in balìa di politica e islam

Massimo Morello
La serie di esplosioni nel cuore della Thailandia turistica per ora senza rivendicazione. I rossi radicalizzati.

Bangkok. In Thailandia la Festa della mamma coincide col compleanno della regina Sirikit, il 12 agosto. Ecco perché gli attentati avvenuti tra il mattino dell’11 e del 12 sono stati definiti “gli attacchi della Festa della mamma”. In 24 ore sono esplose bombe in diverse località turistiche. Il bilancio provvisorio è di 4 morti e una trentina di feriti, dieci dei quali stranieri (due italiani, a quanto risulta). L’attacco più grave si è verificato a Hua Hin, 250 chilometri a sud di Bangkok, dove si trova il Palazzo d’estate della famiglia reale. Altro luogo simbolo è Phuket, in particolare la zona dell’esplosione: la spiaggia di Patong, un susseguirsi di alberghi, ristoranti, locali notturni e bordelli. Questa serie di esplosioni, provocata da bombe “doppie”, ossia programmate per detonare contemporaneamente, fa pensare più a un avvertimento che a una volontà stragista. “Le bombe sono un tentativo di creare caos e confusione”, ha detto il generale Prayut Chan-ocha, autore del golpe del maggio 2014 e attuale primo ministro. Il motivo scatenante sarebbe l’opposizione al risultato del referendum di domenica scorsa che ha legittimato il colpo di stato, segnando il passaggio a una forma di “democrazia controllata”. Gli attentati diventano così una metafora della situazione in gran parte del sud e sud-est asiatico: dal Bangladesh alle Filippine passando per Birmania e Indonesia. In tutti questi paesi caos e confusione si alternano a forme di democrazia controllata o “democratura”: uno scenario dov’è quasi impossibile distinguere tra opposizioni politiche più o meno radicalizzate, governi con pulsioni autoritarie o tentazioni di sharia, lotte tra bande, movimenti separatisti islamici e gruppi che predicano un ipotetico Califfato asiatico.

 

Uno scenario in cui ogni attentato è sempre in cerca di autori. Secondo molti osservatori i registi degli attacchi in Thailandia potrebbero essere i militanti islamici che da oltre dieci anni chiedono l’autonomia delle tre province dell’estremo sud. Una guerriglia che in quelle province ha provocato oltre 6.000 morti. Sino a ora gli attentati e gli attacchi armati erano rimasti confinati “laggiù”, come dicono i thai, e avevano preso di mira soldati, polizia, monaci, insegnanti: tutti i rappresentanti del potere centrale. Il referendum costituzionale potrebbe aver modificato la strategia: la nuova Costituzione accentua il centralismo ed enfatizza il buddismo quale pilastro della “kwampethai”, la thailandesità. In questo senso la scelta del giorno e di Hua Hin avrebbe un valore simbolico: colpire la monarchia e, ancor più, l’immagine della regina. Il corpo d’élite delle “Queen’s Guards” a lei fedelissimo è sempre stato in prima linea nella lotta all’insorgenza. Secondo il colonnello della polizia thai Krisana Patanacharoen “è certo che gli attacchi non sono collegati al terrorismo”. Ma l’affermazione è vaga: in Thailandia si è sempre fatta una distinzione molto netta tra terrorismo di matrice islamica – come quello diffuso nel sud delle Filippine, in Indonesia o Bangladesh – e il separatismo islamico locale.

 

Secondo altri osservatori, la regia degli attentati sarebbe da attribuire all’opposizione sconfitta nel referendum. Un’idea che potrebbe apparire sin troppo comoda. L’opposizione è uscita dal referendum tanto frustrata quanto divisa e non sembra in grado di tale “geometrica potenza”. Se così fosse bisognerebbe pensare a un “salto di qualità”, un ritorno al passato, ai tempi della guerriglia comunista in Thailandia,  più o meno in coincidenza con la guerra del Vietnam. Una guerriglia conclusa con l’amnistia del 1983, ma che potrebbe essere rimasta latente in alcuni dei leader, successivamente integrati nell’opposizione, specie tra le “camicie rosse” i sostenitori dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra. Il rosso delle camicie non aveva una connotazione politica, ma il movimento si richiamava comunque a una forma di lotta di classe tra popolo ed élite (incarnata soprattutto nella nobiltà). In quest’ottica suonano inquietanti le parole di Giles Ji Ungpakorn, attivista politico di fede “repubblicana”, autore del “Red Siam Manifesto”, accusato di lesa maestà e rifugiato negli Stati Uniti dopo il 2004. “Da Atene e Madrid sino a Bangkok la questione più importante per gli attivisti è come costruire partiti rivoluzionari indipendenti, come collegarsi alla classe operaia e come porre la lotta dei movimenti sociali al di sopra delle politiche puramente elettorali”.

 


Sono tutte supposizioni. Come accadde esattamente un anno fa, il 17 agosto 2015, dopo l’attentato al tempio del dio Erawan a Bangkok, che provocò venti morti. I sospetti caddero in alternativa sugli estremisti islamici e sulle camicie rosse. Finché i colpevoli non furono identificati in un gruppo di uiguri, forse legato a organizzazioni criminali, che protestava contro il rimpatrio in Cina di attivisti appartenenti alla loro etnia (di fede musulmana) accusati di separatismo dal governo di Pechino.
Intanto c’è già chi pensa a celebrare riti magici affinché le vittime di questi attentati, prima della prossima reincarnazione, si trasformino in un phii phrai, un fantasma vendicatore, uno spirito psicopatico che non ha pace finché non ha eliminato i suoi nemici alla stessa maniera.