Yingluck Shinawatra mentre vota per il referendum (foto LaPresse)

La riforma costituzionale in Thailandia è una soap opera

Massimo Morello
Al referendum di ieri i cittadini hanno votato per una specie di involuzione della democrazia, che di fatto legalizza i futuri colpi di stato. Un ritratto politico del “caos controllato” nei Palazzi di Bangkok, tra successione del re e opposizione progressista.

Lakorn, una “soap opera”: così è stato definito il referendum che si è svolto in Thailandia domenica 7 agosto, indetto dal National Council of Peace and Order (Ncpo), avatar civile della giunta militare che ha preso il potere nel maggio del 2014. I più colti l’hanno paragonato al Ramakien, versione thai del poema epico indiano Ramayana, in cui gli uomini sono spettatori (o marionette) nella lotta tra divinità.

 

La larga vittoria del sì (anche se i dati definitivi non sono ancora disponibili), sostenuto dall’Ncpo, dimostra che questa è l’interpretazione più vicina a una realtà che alla maggioranza degli occidentali appare tanto surreale quanto assurda. I thailandesi hanno scelto una via di non interferenza, attendere che gli eventi facciano il loro corso. Insomma hanno preferito il male minore. Quella “via di mezzo” che è un imprinting della cultura buddista. Forse è su questo concetto che aveva meditato Warin Buawiratlert, uno di più famosi indovini thai, predicendo che il generale Prayuth Chan-ocha, artefice del golpe e attuale primo ministro, sarebbe rimasto al potere.

 

Circa il 61 per cento degli oltre quaranta milioni di thai (su una popolazione di 67) chiamati alle urne ha deciso di dire di sì alla riforma costituzionale (la ventesima dal 1932, data che segna la fine della monarchia assoluta, quasi tutte adottate dopo uno dei 19 colpi di stato che si sono susseguiti da allora). Il 58 per cento ha ripetuto il sì anche alla seconda domanda, che riguardava l’elezione del primo ministro. Secondo un non ben definito “piano strategico nazionale”, nei primi cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione dovrebbe essere eletto dall’intero Parlamento (da Senato e Camera bassa, corrispondente alla nostra Camera dei deputati) e non dovrà necessariamente essere un parlamentare (lasciando così porte aperte ad altri candidati, per esempio un militare). Modifica non irrilevante. Quasi la maggioranza dei 250 senatori, infatti, non sarà eletta bensì scelta dal National Council of Peace and Order e sei seggi saranno comunque riservati ai militari. Il Senato, inoltre, nominerà i giudici della Corte Costituzionale, controllando di fatto ogni possibile deviazione da quanto stabilito. La Camera bassa, poi, ogni tre mesì dovrà “fare rapporto” al Senato sul procedere delle riforme previste. Come se tutto ciò non bastasse la nuova Costituzione prevede una Assemblea Nazionale per la guida delle riforme, composta da militari e fedelissimi della giunta che avrà il potere di sciogliere le camere e passare il potere alle forze armate. In altre parole: legalizzare futuri colpi di stato. Secondo un giornalista birmano la Thailandia si avvia a replicare il modello del suo paese: “Una democrazia sub-standard”. Se in Birmania questo modello segna un deciso passaggio tra dittatura e democrazia, in Thailandia potrebbe segnare il passaggio tra un decennio di turbolenze a una fase di stabilità in cui il controllo esercitato dai militari è legittimato dal popolo. Al tempo stesso sancisce un’inversione di tendenza, un ritorno a un passato pre-democratico.

 

Secondo l’opposizione, la vittoria è una conseguenza del draconiano “Constitution Referendum Act”: proibiva ogni tipo di propaganda che desse un’interpretazione diversa da quella ufficiale. I trasgressori rischiavano sino a dieci anni di prigione e secondo la Thai Lawyers for Human Rights oltre cento persone sono state incriminate per averlo violato. Ma anche per l’opposizione, che ha riconosciuto la sconfitta, la spiegazione più profonda è più pragmatica: per i thai votare sì ha significato avviarsi in un percorso che porterà a nuove elezioni entro l’anno prossimo, come promesso dal generale Prayut, e che, conclusa la transizione di “democratura” dei prossimi cinque, sei anni, potrebbe riportare il paese a una democrazia compiuta. Speranze, ma che non avevano alternativa: in caso di vittoria del no, il generale Prayut aveva dichiarato che si sarebbe proceduto a un’ulteriore revisione costituzionale, prolungando a tempo indeterminato la road map verso la democrazia. A chi gli chiedeva se avrebbe seguito l’esempio di Cameron che si era dimesso dopo la sconfitta nel referendum sulla Brexit aveva risposto che le situazioni erano completamente diverse. Compreso il fatto che “Cameron è stato eletto, io no”.

 



 

Altri osservatori, compresi quelli schierati sul fronte del no, accreditano la vittoria del sì all’enfasi posta nella lotta alla corruzione. La nuova Costituzione, infatti, prevede leggi e controlli molto severi sulla condotta dei politici, che possono essere banditi a vita dalla cosa pubblica qualora giudicati corrotti. Lo stesso primo ministro può essere destituito in difetto di “standard etici”. Un meccanismo legislativo che per Pavin Chachavalpongpun, uno dei maggiori dissidenti, è concepito per minimizzare il potere dell’opposizione, tanto più col nuovo sistema elettorale che accentua il sistema proporzionale rendendo pressoché impossibile a un partito che abbia ottenuto la maggioranza di governare il paese senza il sostegno dei militari. “L’obiettivo è creare una frammentazione politica che porti a governi di coalizione che non possano essere dominati da un singolo partito” ha dichiarato Thitinan Pongsudhirak, professore di scienze politiche alla Chulalongkorn University di Bangkok.

 

“La tirannia della maggioranza” e la “dittatura parlamentare” sono sempre stati indicati dai militari e dalle élite thai quali i peccati originari che hanno infranto il sistema di norme che costituisce l’impalcatura della società. Quel sistema è definibile nel rapporto “pii-nong”. Vale a dire anziano-giovane. Meglio ancora: maggiore-minore. Un rapporto molto complesso: riguarda l’età, la gerarchie familiari, professionali, economiche, sociali, culturali, l’esperienza, lo status. Un sistema che tende al mantenimento dell’establishment, cristallizza le stratificazioni sociali, già viste come un’espressione del karma individuale, un destino assegnato a ogni individuo in funzione dei meriti acquisiti nelle vite precedenti. E che si può migliorare dimostrando “kreng chai”, “un cuore riverente”, ossia un complesso di sentimenti ed emozioni che vanno dal rispetto alla paura, dalla sottomissione all’affetto.

 

Negli ultimi dieci anni questo sistema di relazioni sociali è stato incrinato dalla politica di Thaksin Shinawatra, l’ex premier deposto da un colpo di stato nel 2006, accusato di corruzione e abuso di potere. Thaksin, che aveva accumulato un’immensa fortuna nel settore della telefonia, si era poi conquistato il favore popolare con una vera e propria “rivoluzione culturale” che metteva a rischio i privilegi dell’“ammart”, l’élite, e si basava su un’economia assistenzialista spesso indistinguibile dalla corruzione. Con la sua deposizione la Thailandia si è divisa in due: da una parte le cosiddette “camicie rosse”, dall’altra quelle “gialle”, indossate dai suoi avverari. Da allora il paese è entrato in un ciclo di manifestazioni, rivolte e contro-rivolte che si è concluso con il golpe del 2014. Una situazione aggravata dal fatto che alla Thailandia è venuto a mancare il controllore supremo: Sua Maestà Bhumipol Adulyadej, Rama IX. Ormai da anni le condizioni fisiche del re gli impediscono di esercitare quel ruolo di arbiter che tutti i thai gli riconoscono e che lo rende un punto di riferimento nei momenti di sfiducia nei confronti dei politici. E’ grazie alla sua autorità morale che in passato è riuscito a risolvere crisi ancor più gravi, mantenendo il paese in quello che è stato definito uno stato di “caos controllato”. Per molti intellettuali thai il re agiva secondo il Dasarajadhamma, “i principi del re virtuoso” che derivano dalle norme del buddismo Theravada elaborate oltre 2500 anni fa. Oggi che ciò non è più possibile il caos rischiava di divenire incontrollabile, tanto più in previsione di una successione contrastata: il suo erede, il principe Maha Vajiralongkorn, non gode dello stesso favore popolare. Sia i militari sia l’aristocrazia hanno bisogno di tempo per creare un nuovo consenso nei confronti della futura monarchia (come dimostra il supporto della giunta per il principe ereditario). E’ un fenomeno che si inserisce in ciò che è stato definito il “neopatrimonialismo” in sud-est asiatico, riprendendo il concetto di patrimonialismo elaborato dal sociologo Max Weber nel 1910: “Un'evoluzione del patriarcalismo, il tipo di potere di gran lunga più importante tra quelli che si fondano sull’autorità tradizionale”.

 

In Thailandia, come in altri paesi dell’area, si sta creando un confronto tra una visione nazionalistica, tradizionale, di stampo orientale e una visione più globale, progressista, di stampo occidentale. Quest’ultima in Thailandia non è incarnata solo dai seguaci della famiglia Shinawatra, ma anche da alcuni esponenti del conservatore Partito Democratico come l’ex primo ministro Abhisit Vejjajiva, educato in Inghilterra, schierato a favore del no. Per Abhisit la nuova Costituzione rischia di portare la Thailandia in una sfera d’influenza dominata dal modello cinese, frenare lo sviluppo, isolarla dalla modernità. Come lui la pensavano molti intellettuali, imprenditori e giornali conservatori. Il che aveva fatto credere che i “poteri forti” dell’economia avrebbero influenzato il voto a favore del no. La paura dell’instabilità è stata ancora più forte: secondo la Banca Centrale Thai nella prima metà del 2016 gli investimenti esteri sono diminuiti del 90 per cento rispetto allo stesso periodo del 2015 anche a causa delle incertezze politiche. La vittoria del sì dovrebbe ridare fiducia agli investitori (e appare confermato dal rialzo della borsa di Bangkok). Non fosse altro perché sembra ridurre le possibilità di tensioni interne in modo direttamente proporzionale alla percentuale di chi lo ha votato. Come ha dichiarato il ministro degli Esteri, Don Pramudwinai, “oggi la Thailandia è molto più sicura di molte nazioni occidentali”.

 

Appare improbabile, infatti, una replica delle manifestazioni dei rossi come quelle del 2010, quando occuparono il centro di Bangkok creando una situazione di guerriglia urbana. Sia per il controllo dei militari, sia perché questo ha ottenuto una legittimazione, sia perché i seguaci della famiglia Shinawatra appaiono sempre più disorientati e frustrati. La storia thai, tuttavia, ha ormai dimostrato, che fare previsioni basate sulla logica occidentale, su analisi di causa-effetto è un esercizio tanto inutile quanto pericoloso. Per il momento il maggior rischio rappresentato dal sì alla nuova Costituzione potrebbe essere racchiuso nell’articolo 67, secondo cui il buddhismo theravada assume quasi la valenza di religione nazionale. Il che ha già suscitato forte malumore nelle province dell’estremo sud thai, a maggioranza islamica.

Di più su questi argomenti: