Il presidente turco Erdogan (foto LaPresse)

Non solo golpe. Perché i rapporti tra l'America e la Turchia sono ai minimi storici

Daniele Scalea
Il fallito colpo di stato, l’affaire Gülen, e un allontanamento tra alleati che va avanti già da molto tempo. Interessi, strategie e scontri tra le due potenze, con l’ombra di Mosca che incombe

Le relazioni turco-statunitensi sono ormai ai minimi termini: dopo una lunga parabola discendente, si sono inabissate a seguito del fallito golpe del 15 luglio scorso. Gli eventi nel corso del tentato colpo di stato hanno fatto infuriare Ankara, e quelli successivi indispettito Washington. Il tutto sullo sfondo di fondamentali dissidi strategici.

 

Erdoğan si è sentito tradito dal contegno assunto dagli Usa nella concitata nottata del fallito golpe.  Malgrado si trattasse di un governo formalmente alleato, il presidente Obama ha espresso il suo sostegno solo quando era ormai chiaro che il golpe sarebbe fallito. Prima era intervenuto il segretario di stato John Kerry, il quale non solo non aveva appoggiato esplicitamente il Governo, ma auspicando “stabilità e pace e continuità in Turchia” aveva evitato ogni richiamo a “democrazia” e “legalità” che potessero apparire un implicito avallo a Erdoğan.

 

Le azioni sono state non meno ambigue delle parole. Mentre Erdoğan incitava la popolazione a scendere in strada contro i militari ribelli, fonti militari statunitensi facevano circolare la falsa notizia che il presidente turco fosse già in fuga verso l'estero – notizia rilanciata con forza dalla Nbc, rete televisiva parimenti americana. In realtà, il presidente turco si trovava sul proprio Gulfstream governativo nei cieli anatolici, tallonato da due F-16 pilotati dai golpisti, riforniti in volo – al pari di tutti gli altri velivoli coinvolti nel golpe – da quattro KC-135R partiti dalla base aerea di Incirlik, utilizzata congiuntamente da America e Turchia.

 

Dulcis in fundo, l'uomo che secondo i Turchi è dietro al golpe, Fethullah Gülen, risiede da tempo in Pennsylvania, e in America opera la principale branca (almeno tra quelle visibili) della sua organizzazione. Organizzazione che tra l'altro ha rapporti consolidati con la candidata presidenziale Hillary Clinton. Da qui le accuse, rivolte a Washington dal ministro turco Süleyman Soylu e del giornale pro Akp “Yeni Şafak”, di aver orchestrato il fallito golpe.

 

L’America guarda invece con preoccupazione a quanto sta avvenendo in Turchia dopo il fallimento del golpe. E non tanto per i motivi che preoccupano maggiormente  in Europa (come la reintroduzione della pena di morte, in vigore anche in molti stati nordamericani, o come l'ipotesi di una piena islamizzazione del Paese, suggerita da certi reportage giornalistici costretti a fare sensazionalismo ma non confermata dagli osservatori più attenti). A Washington più pragmaticamente si osserva che:

 

−    la de-gülenizzazione dei ranghi amministrativi e giudiziari ha sradicato dal paese un'organizzazione basata in America e su cui ha un certo ascendente. Dunque, un possibile asset della politica estera statunitense è stato reso inservibile nel paese anatolico. Va considerato che l'ascendente americano su kemalisti e nazionalisti laici è fortemente scemato negli ultimi anni, a seguito delle simpatie che Washington ha a lungo mostrato verso l'Akp, presentato addirittura quale modello di “islam moderato”. La fazione filo-americana in Turchia è allo stato attuale molto indebolita;
−    l'epurazione dei ranghi militari, che ha colpito quasi metà degli ufficiali superiori, unita al clima di discredito e sospetto in cui dovranno ora muoversi, indebolisce in maniera drammatica le Forze armate turche, che in seno alla Nato sono le seconde per effettivi e le settime per spesa. Sul medio-lungo periodo potranno recuperare la loro efficienza originaria, ma nel breve vi sarà uno scotto da pagare. In particolare, l’America ha finora fatto affidamento sulla rete intessuta dai Turchi in Siria per individuare, cooptare e foraggiare milizie ribelli da rendere strumentali ai loro interessi politici (invero, senza un gran successo);
−    l'eventualità di un ingresso della Turchia nell'Ue, già remotissima prima del 15 luglio, è ormai definitivamente tramontata. Per l’America inserire la Turchia nell'Ue avrebbe significato radicare più fortemente il paese anatolico nel sistema occidentale, per metterlo al riparo dalle varie sirene che cantano nel vicino oriente (in particolare quelle russe). Se dovesse naufragare anche l'accordo sul controllo dei flussi migratori, l'Europa potrebbe essere investita da un'immigrazione mediorientale senza precedenti. L’America teme le conseguenze che ciò potrebbe avere in Europa: da un aumento del terrorismo nel breve periodo, a un emergere delle destre nazionaliste e filo-russe (o comunque poco pro-americane) nel medio, fino a un'islamizzazione dell'Europa nel lungo.

 

Il fallito golpe del 15 luglio non ha scatenato l'incendio, ma solo funzionato da accelerante. La Turchia non è mai stata un alleato dei più facili per l’America, come dimostrano le tensioni sorte negli anni '70 su Cipro, nei primi anni 2000 sul Kurdistan iracheno e negli ultimissimi anni sulla Siria. Ankara, pur unendosi controvoglia alla coalizione anti Daesh, non ha mai digerito l'appoggio statunitense al Ypg, i cugini siriani del Pkk turco. Da quando il Ypg gode dell'appoggio materiale di Russi e Americani, il Pkk si è fatto molto più aggressivo ed efficace in Turchia. Negli ultimi mesi, per la prima volta in una guerriglia quarantennale, la milizia curda nazional-comunista ha fatto uso di MANPADS per abbattere elicotteri turchi. Dalla rottura della tregua un anno fa, circa 600 soldati e poliziotti turchi sono caduti per mano del Pkk.

 

Si unisca ciò all'offensiva terrorista di Daesh, alle tensioni politiche interne di cui il tentato golpe è solo la punta del iceberg, e si capirà perché la strategia turca si stia spostando dal tentativo d'inglobare la Siria nella propria sfera d'influenza (ormai fallito) a quello d'evitare che sia la guerra civile siriana a inglobare la Turchia stessa. A quest'obiettivo, verosimilmente, Erdoğan sarà disposto a sacrificare molte delle sue passate ed esagerate ambizioni, come dimostra il tentativo di ricucire i rapporti con Israele e Russia o la sempre minor fermezza nel richiedere la destituzione di Assad. Ciò che il Presidente turco non sacrificherà a cuor leggero è l'alleanza con l’America e l'appartenenza alla Nato. Più che mai in un momento tanto difficile, in cui lo stato turco sente su di sé un pericolo esistenziale, servono appigli forti e consolidati. Un ipotetico nuovo accordo con Putin o Netanyahu, dopo la feroce inimicizia degli ultimi anni, non potrebbe essere visto da Erdoğan come un punto fermo e sicuro su cui fondare immediatamente una nuova strategia internazionale per la Turchia. Il destino del paese anatolico potrebbe ben essere lontano dall'occidente euro-americano, ma non si consumerà nel giro di pochi mesi. Il che darà a Washington il tempo per tentare delle contro-mosse.