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Strage di bambini

Annalena Benini
Ci sono bambini negli ospedali di Nizza che non parlano, non piangono nemmeno. Sono feriti, sono zitti e sono soli perché i genitori non si trovano. Forse sono morti.

Ci sono bambini negli ospedali di Nizza che non parlano, non piangono nemmeno. Sono feriti, sono zitti e sono soli perché i genitori non si trovano. Forse sono morti. Le infermiere li consolano, “come se fossero i nostri figli”, hanno detto, ma questa solenne paralisi del silenzio assomiglia al silenzio del cielo e degli uccelli e del mare dopo quei minuti di orrore,  in cui il camion ha fatto la sua corsa per uccidere più persone possibile, per schiacciarle, falciarle, travolgerle, è andato a zig zag per togliere i figli alle madri, per distruggere la vita: tutta la vita che esiste una sera di festa e d’estate, durante i fuochi d’artificio sul lungomare. Quando si portano i bambini fuori nei passeggini per farli addormentare, quando si esce per comprare un gelato, per sentire il vento che arriva dal mare. Quest’uomo, padre di tre figli, residente a Nizza, che ha finto di dover vendere gelati per tenere un tir parcheggiato in città, e che ha sparato dal finestrino a quelli che correvano in spiaggia per salvarsi, e ha sbandato e sterzato come nei videogiochi, non ha schiacciato con quelle ruote mostruose solo la nostra vita occidentale e la libertà, ma ha colpito ancora più forte: la primarietà. L’essenzialità di ciò che siamo. Genitori con figli, madri con la carrozzina, bambine con la bambola al petto.

 

Tutta la nostra vita è lì, non c’è nulla di più importante, né di più disarmato: i nostri figli, e noi con loro. I bambini schiacciati dalle ruote del camion bianco, e i bambini soli e disperati in ospedale. Erano loro il bersaglio. Perché il bersaglio è l’essenza di ciò che siamo, ciò per cui viviamo, quello che dà senso al mondo.

 

Tutti i bambini amano i fuochi d’artificio: è una cosa semplice, basta alzare il mento e restare lì a guardare i disegni del fuoco nel cielo. Stupiti, ogni volta. Felici di essere vivi, e tutti, non solo i bambini, quando guardano il cielo esprimono desideri alle stelle e ai fuochi. Così, dentro tutti quei desideri, tutte quelle speranze, di nuovo c’è stato un istante di incredulità, come al Bataclan a Parigi, quell’attimo di sospensione in cui gli spari e la morte sono stati confusi con lo spettacolo, con il rumore dei fuochi, perché nessuno vuole davvero credere all’orrore. Nessuno è preparato. Diciamo ai nostri figli che il lupo cattivo non esiste, che i mostri non esistono, e invece esiste un camion bianco lanciato a ottanta chilometri all’ora per schiacciare i bambini e i loro genitori, metro per metro, zigzagando per colpirne di più (“saltavano in aria come birilli”, ha detto un testimone). Millesettecento metri. Un camion per dire addio alla vita. Ragazzi che non diventeranno mai adulti, madri che lasciano orfani, un uomo su uno scooter che ha cercato di fermare il camionista, un nonno che ha cercato di salvare i suoi nipoti, gambe che non cammineranno mai più, corpi sull’asfalto di fronte al mare, la bambola sdraiata accanto. Una  famiglia si è salvata perché la bambina non aveva fatto i compiti, il pomeriggio, e la madre per punizione non l’ha portata a vedere i fuochi. Un bambino è rimasto solo su un passeggino, legato con le cinghie di sicurezza, alcune persone l’hanno portato a casa con loro. Una donna si è chiusa in un ristorante insieme a molti altri in cerca di salvezza, c’erano persone che si nascondevano sotto i frigoriferi, e lei per il terrore ha avuto le doglie e ha partorito lì, nelle cucine, aiutata da chi era lì: il suo bambino è venuto al mondo mentre altri bambini venivano strappati dal mondo, il quattordici luglio.

 

Per una frustrazione da trasformare in mattanza, forse, comunque per mettere in atto la distruzione assoluta.
I bambini muti in ospedale che non sanno se i loro genitori torneranno sono affacciati su una voragine che non ha possibilità di riparazione. Loro erano a faccia in su, a guardare i fuochi, disarmati come tutti, più di tutti, mano nella mano con un adulto, oppure accanto sulla bici, o si strofinavano gli occhi perché avevano già sonno. Un minuto prima c’erano l’infanzia e l’estate, un minuto dopo l’orrore e più niente, un minuto dopo tutto fuorché quiete. Per millesettecento metri ogni metro ha schiacciato il futuro nel momento della sua massima tranquillità, una sera di festa sulla Promenade des Anglais, la sera prima di tornare al mare, la sera che il padre aveva promesso quel gelato, quelle caramelle, quel giro in bicicletta. I bambini paralizzati dal terrore sono la verità di questa strage, i bambini schiacciati dal tir che doveva vendere gelati, i bambini morti in ospedale e i bambini che non riescono nemmeno più a dire mamma perché hanno negli occhi un orrore che non finirà. Prima eravamo noi a dover spiegare ai nostri figli che cos’è l’orrore, a cercare le parole semplici e giuste per non spaventarli ma per dire che sì, il male esiste. Adesso sono loro, i bambini sopravvissuti alla strage di Nizza, a sapere esattamente che cos’è il male, e a non credere più a niente di quello che diciamo noi adulti. Sta tranquillo, passerà, dicono le infermiere a questi bambini, troveremo i tuoi genitori. Ma loro non parlano, loro sanno già tutto.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.