Álvaro Uribe Vélez (foto LaPresse)

Perché in Colombia la pace con le Farc non va. Parla l'ex presidente Uribe

Maurizio Stefanini
“Macri è una speranza, il Venezuela un’angustia, la Colombia è una preoccupazione”, questo il resoconto della situazione in Sudamerica dell'ex capo del governo colombiano.

Roma. “Macri è una speranza, il Venezuela un’angustia, la Colombia è una preoccupazione”. Così Álvaro Uribe Vélez, presidente della Colombia dal 2002 al 2010, sintetizza il Sudamerica in una conversazione con il Foglio. Eletto a furor di popolo per la sua politica di linea dura con la guerriglia delle Farc dopo il fallimento del processo di pace intrapreso dal suo predecessore Andrés Pastrana, Uribe si trovò a essere a un certo punto l’unico presidente moderato in un continente sudamericano costellato da governi di sinistra. “Con le Farc all’interno e con Hugo Chávez che dall’esterno le appoggiava furono per me anni molto difficili. Chávez dovetti affrontarlo, e fui in Sudamerica l’unica voce ufficiale di opposizione a quella tirannia”. Dopo due mandati in cui inflisse alle Farc sconfitte memorabili, passò la mano al suo ministro della Difesa Juan Manuel Santos. Ma mentre i governi di sinistra latinoamericani sono ora travolti l’uno dopo l’altro da una crisi inarrestabile, proprio Santos si è impegnato con le Farc in un negoziato apparentemente prossimo alla firma di una pace storica: anche se il cessate il fuoco è continuamente violato, e già un fronte delle Farc ha fatto sapere che intende continuare a combattere. Divenuto il più importante critico di questo processo, Uribe ha fondato un nuovo partito e si è fatto eleggere al Senato per opporsi al progetto del suo ex delfino.

 

“La Colombia è una preoccupazione perché l’attuale presidente, che da mio ministro era la voce più critica contro la dittatura del Venezuela, oggi fa parte del club di governi che approvano tutti gli atti della tirannia di Maduro”, dice Uribe in un incontro organizzato da Mediatrends durante una sua visita a Roma. “Macri è una speranza, perché sta applicando quelli che io chiamerei i cinque princìpi democratici. Sicurezza, fiducia per attirare gli investimenti, politiche sociali, rispetto dell’indipendenza delle istituzioni, rispetto del pluralismo partecipativo. La tirannia del Venezuela è un disastro”.

 

Avvocato con specializzazione ad Harvard e cultore dello yoga, Uribe impressiona per la sicurezza con cui snocciola a raffica numeri a memoria. “Prima del chavismo, in Venezuela c’erano 4.000 omicidi all’anno, ora 25.000. Il chavismo ha espropriato più di 5 milioni di ettari di terreno, e adesso devono importare l’80 per cento degli alimenti. Avevano 11.000 industrie, ne restano 6.000. 13.000 medici se ne sono andati, provocando una grave crisi umanitaria”.

 

Con altre cifre Uribe difende la sua presidenza. “I tre pilastri del mio governo erano sicurezza senza ridurre la libertà, promozione degli investimenti, politica sociale. Abbiamo ridotto la povertà dal 52 al 37 per cento, la disoccupazione dal 16 al 9, l’istruzione di base è arrivata al 100 per cento, l’educazione media dal 58 al 78, quella universitaria dal 22 al 36, la copertura sanitaria è divenuta quasi universale”. Con altre cifre ancora critica le performance del suo successore Santos. “La disoccupazione è in aumento, l’indebitamento è salito del 6 per cento, l’inflazione è passata dal 2,31 all’8,65”. Ma, soprattutto, la sua critica è sul processo di pace, con gli accordi dell’Avana, luogo dove si è tenuto il negoziato pluriennale, su riforma agraria, integrazione dei guerriglieri nella vita politica e civile, una nuova strategia di lotta alla droga, una giurisdizione speciale per la pace.

 

Uribe non si dice contrario al negoziato in linea di principio. “Mio padre fu assassinato dalle Farc, ma io ho partecipato senza alcun rancore alla commissione di pace voluta da Belisario Betancur (presidente negli anni Ottanta, autore del primo tentativo di pace con le Farc, ndr). Durante il mio mandato abbiamo reinserito nella vita civile 35.000 paramilitari e 18.000 guerriglieri”. Ma secondo lui già adesso la nuova strategia sulla droga sta facilitando il ritorno del narcotraffico. “Avevo ridotto le coltivazioni di droga da 170.000 a 47.000 ettari, adesso sono di nuovo a 150.000”. Neanche gli sta bene l’impunità. “Si può accettare per i guerriglieri comuni, ma i capi delle Farc responsabili dei fatti più gravi devono andare in carcere, sia pure con pene ridotte. Altrimenti si viola la Costituzione e si violano le leggi internazionali”. Non accetta che “si negozi con loro l’agenda nazionale”. E soprattutto, “dal momento che le Farc sono il terzo gruppo terrorista più ricco del mondo”, chiede che indennizzino le vittime in denaro sonante: “Anche per essere sicuri che i soldi non li utilizzino per comprare nuove armi”.

 

Il Papa sembra però appoggiare il processo di pace in Colombia. “Sono un politico arrogante ma un cattolico umile e osservante. Ricordo però che per lo stesso Francesco la pace non può esistere senza giustizia”.

 

Di più su questi argomenti: