La marina cinese (foto LaPresse)

La strategia di Pechino è come nel gioco del go: guadagnare territorio

Massimo Morello
Quella che si gioca nel Mar cinese meridionale è una partita di wei ch’i, dove l’importante non è l’eliminazione del nemico bensì il controllo di parte del territorio. In questo caso il Pacifico occidentale, mentre quello orientale ricadrebbe nella sfera d’influenza statunitense.

Milano. Sostiene Henry Kissinger che la strategia occidentale si basa sul gioco degli scacchi, quella cinese sul wei ch’i (noto col nome giapponese di go). Negli scacchi lo scopo è la distruzione dell’avversario. Nel wei ch’i è semplicemente guadagnare territorio. Quella che si gioca nel Mar cinese meridionale è una partita di wei ch’i. L’ultima mossa all’apparenza segna un punto di svantaggio per i cinesi. E’ il verdetto della Corte permanente di arbitrato dell’Aia sul caso sottoposto dalle Filippine contro le “attività illegali” della Cina. Le 500 pagine della sentenza compongono un vero “tractatus” marino, che spazia dalla storia alla geologia, dalla giurisprudenza all’ecologia.

 


Go, chiamato anche wei ch’i, è un gioco da tavolo strategico per due giocatori. Lo scopo del gioco è il controllo di una zona del goban (la scacchiera) maggiore di quella controllata dall'avversario.


 

Per giungere a una conclusione senza appello: sono respinte tutte le rivendicazioni cinesi. Secondo la Corte non ha valore storico o legale la mappa cinese in cui è tracciata la cosiddetta “linea a nove trattini”, che delimita sotto il controllo di Pechino il 90 per cento dei 4 milioni di chilometri quadrati di quel mare. All’interno di quella linea transita ogni anno un traffico di 5 trilioni di dollari e sotto quelle acque si stimano riserve di petrolio per 11 miliardi di barili e di gas naturale per 2 trilioni di metri cubi. Senza contare le risorse ittiche: il 12 per cento del pescato globale. Lungo quella linea, secondo la strategia del wei ch’i, la Cina sta costruendo una “grande muraglia di sabbia”, trasformando bassi fondali in terre emerse, scogli e atolli in isole. Un modo per affermare la sovranità sino alle 12 miglia delle acque territoriali o estenderla alle 200 delle zone economiche esclusive. Senza contare che alcune di quelle isole sovrastano fondali che sono perfetti per i sottomarini nucleari della flotta dell’esercito di Liberazione popolare.

 

In questo campo di gioco, gli avversari sono tutti gli altri paesi che si affacciano sul Mar cinese meridionale: Vietnam, Filippine, Indonesia, Malaysia, Brunei. Ma il vero nemico è l’America, da quando l’Amministrazione statunitense ha elaborato la strategia del “pivot” in Asia, per riaffermare la sua presenza economica e militare nel continente. Con la sentenza dell’Aia le nazioni costiere possono rivendicare diritti di pesca e sfruttamento minerario. Gli Stati Uniti vedono riconosciuti diritti strategici di navigazione e manovre militari. C’è già chi invoca la “Chexit”, l’uscita di scena della Cina dalle zone contese. La Cina, però, non ha alcuna intenzione di farlo. La sovranità sul Mar della Cina è considerata intangibile al pari di quella sul Tibet e ha un valore simbolico pari a quello strategico: rappresenta l’affermazione del potere nazionale che l’occidente aveva umiliato nelle guerre dell’oppio (1839-1860).

 

Secondo il professor Graham Allison, esperto di sicurezza mondiale, questa situazione potrebbe far scattare la “Trappola di Tucidide”, un conflitto tra una potenza emergente, la Cina, e la potenza dominante, gli Stati Uniti. Com’era accaduto 2.500 anni fa nella guerra narrata dallo storico greco: era stata l’ascesa di Atene e la paura che ne aveva Sparta a renderla inevitabile. Oggi la paura degli Stati Uniti sarebbe rafforzata dal piano quinquennale della marina cinese: prevede un’ulteriore espansione della flotta per costruire un potere di proiezione sui “mari vicini”. Non solo il Mar cinese meridionale ma anche il Mar Giallo e il Mare dell’est che dividono la Cina da Corea, Giappone e Taiwan.

 

La Trappola di Tucidide è probabile solo in una strategia scacchistica. Secondo il wei ch’i, invece, l’importante non è l’eliminazione del nemico bensì il controllo di parte del territorio. In questo caso il Pacifico occidentale, mentre quello orientale ricadrebbe nella sfera d’influenza statunitense. Per raggiungere tale obiettivo, la sentenza della Corte dell’Aia potrebbe rivelarsi un’opportunità, riaprendo il tavolo di trattative bilaterali con i paesi coinvolti: dalle Filippine (il neopresidente Duterte ha chiaramente manifestato la sua disponibilità), allo stesso Vietnam che, dopo lo storico riavvicinamento agli Stati Uniti, non ha interesse a creare una crisi con la Cina. La sentenza dell’Aia, insomma, segna uno di quegli snodi in cui si decide il futuro del pianeta. Come accadde nei primi anni Settanta, quando le conversazioni tra Kissinger e Zhou Enlai portarono alla distensione tra Cina e Stati Uniti.

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