Il Ceo di Amazon Jeff Bezos

Sono Bezos, mastino anti no global

Il capo di Amazon è oggi il vero avvocato difensore nel processo alla globalizzazione. Muove merci da Seattle allo spazio, combatte i dazi e Trump. Inchiesta su un’icona.

New York. Nel grande processo alla globalizzazione che vede Donald Trump, i fautori della Brexit e gli altri antagonisti delle visioni sopranazionali nel ruolo dei grandi inquisitori che incalzano, Jeff Bezos è il monumentale avvocato difensore. Non c’è personaggio più adatto per beffeggiare, con la sua risata iconica, i declinisti che vogliono trincerarsi entro vecchi confini protetti con i dazi dell’uomo che vende tutto in tutto il mondo. E non riuscendo ad accontentarsi di questo mondo sta lavorando per trasferire nello spazio ingombranti settori manifatturieri che inquinano e rallentano. Il presente terrestre è sbilanciato verso il terziario, ma il futuro è tutto quaternario, con i residui della vecchia industria delocalizzati in orbita: è il passaggio, quasi metafisico, fra la globalizzazione e la galassizzazione.

 

Il perno della filosofia di Amazon è la libertà di movimento, la fluidità, la possibilità di muovere con strumentazione digitale ed eterea flussi di prodotti materiali e immateriali, dagli ebook ai pannolini, e il successo di un’impresa che ha una capitalizzazione di mercato da capogiro e trimestrali da urlo è un peana al mercato senza confini, è l’applicazione pratica di quell’ “ordine liberale internazionale” che l’Economist vede sgretolarsi sotto i colpi del nazionalismo protezionista. Bezos è della globalizzazione l’eroe supremo, anche più dei colossi del “puro” settore tech, che smerciano sostanzialmente prodotti virtuali e connessioni ad alta intensità algoritmica, mentre lui è un traghettatore del vecchio mondo in quello nuovo. Il Washington Post, acquistato nel 2013, è l’incarnazione di un sodalizio fra generazioni anagrafiche e commerciale che è tutto da studiare e capire. Bezos sta tentando l’impresa. E’ naturale che il protezionista-isolazionista Trump sia l’avversario naturale di questo simbolo vivente della globalizzazione.

 

Il candidato repubblicano non aspettava che un pretesto per depennare dalla lista dei giornali ammessi agli eventi elettorali anche il Washington Post. Un titolo audace dopo la strage di Orlando ha fornito il casus belli perfetto: “Donald Trump suggerisce che il presidente Obama era coinvolto nella sparatoria”, ha scritto il quotidiano, dopo che Trump aveva insinuato che, quando si tratta del rapporto di Obama con il radicalismo islamico, “there is something going on”, qualcosa non quadra, detto con la solita vaghezza che è manna per i costruttori di teorie del complotto. Ha fatto l’offeso, Trump, parlando di una “copertura completamente inaccurata” da parte del Post, se l’è presa con Bob Costa, giovane mastino della cronaca politica, lato conservatore, che raccoglie sempre informazioni di qualità che trapelano dai quartieri della campagna elettorale, ma il “fasullo e disonesto” Washington Post è soltanto il paravento del vero obiettivo, Jeff Bezos. Gli uomini di Trump lo chiamano il “Bezos Post”, dicono che è il megafono ideologico del gran magnate di qualunque cosa, l’uomo che a dire del candidato ha tirato fuori dalle sabbie mobili il morente giornale della famiglia Graham per una cifra spropositata (“non ho fatto la due diligence, ho dato la cifra che mi hanno chiesto”, ha effettivamente detto lui) per condurre una battaglia politica e ideologica sotto mentite spoglie: “Amazon controlla tutto quello che fanno al giornale. Lo sta usando come uno strumento per il potere politico contro di me e contro altri, e vi dico una cosa: non possiamo permetterglielo”.

 

Lo strumento per l’agitazione politica è anche un grimaldello per pagare meno tasse, ché la questione fiscale è un eterno punto di contesa per chi agisce in un business che è contemporaneamente immateriale e solido. Con le sofisticazioni digitali più avanzate, Bezos muove merci che varcano confini e scaltramente eludono dazi, rendendo difficile all’autorità pubblica stabilire dove, esattamente, venga prodotta, e dunque vada tassata, la ricchezza: “Sta usando il Washington Post per accrescere il suo potere, così i politici di Washington non tasseranno Amazon nel modo in cui dovrebbe essere tassata”, dice Trump. Bezos non se n’è stato zitto a prendere scudisciate: “Non è un modo adeguato di comportarsi per un candidato alla presidenza”, ha detto in un’intervista a Marty Baron, il direttore del Post già santificato dalla stampa con la schiena dritta e da Hollywood per aver puntato il riflettore, lo “Spotlight”, sui chierici predatori della chiesa di Boston.

 


Jeff Bezos spiega come Donald Graham, allora proprietario del Post, lo convinse a comprare: "I giornali stanno fallendo per via di internet. Serve qualcuno che conosca la tecnologia".


 

Baron è anche il direttore di un progetto investigativo di alto profilo, sul genere affinato ai tempi del Boston Globe, proprio su Trump, un libro-inchiesta in uscita il 23 agosto. La copertina porterà la firma di Michael Kranish e Marc Fisher, ma in realtà è il frutto di un possente lavoro di squadra che ha coinvolto decine di giornalisti del Post che come una falange si sono mossi per frugare negli armadi di Trump alla ricerca di scheletri. Questo sforzo corale ha già prodotto, fra le altre cose, lo speleologico recupero di un nastro degli anni Novanta. E’ la conversazione telefonica fra una cronista del Post e il presunto John Miller, una delle identità fittizie che Trump usava per parlare più liberamente con i giornalisti, cosa che ha prodotto una certa impressione nel pubblico, messo di fronte alla realtà imbarazzante e udibile di un uomo che si spaccia per il proprio portavoce. E’ stato Bob Woodward, il leggendario segugio del Watergate, a rivelare che la direzione del giornale ha messo addirittura “un paio di dozzine” di giornalisti a fare ricerche a tempo pieno sul passato del candidato, per trovare magagne e scoperchiare malefatte, ed è Bezos che ha raccontato, traboccante di passione civile, di quando aveva dieci anni e se ne stava sdraiato sul pavimento della casa dei nonni a guardare le interrogazioni parlamentari sul Watergate, mentre i suoi coetanei si sollazzavano con i pupazzoni di Sesame Street.

 



Bob Woodward e Carl Bernstein, i giornalisti del Washington Post che svelarono il Watergate


 

Allora il Washington Post ha preso ad emanare, agli occhi di Bezos, il fascino dell’eroico contropotere che mette in riga i governi, finché l’uomo d’affari non se l’è comprato. Insomma: alla lista delle varie maschere e identità di cui Bezos è titolare si aggiunge quella di eroe civile che grazie all’acquisto di un simbolo del giornalismo americano si oppone agli istinti antisistema. Da miliardario tecnologico è diventato nemesi di Donald Trump e di tutto ciò che rappresenta.

 

Le inchieste del giornale contro Trump si muovono in un ventaglio che va dagli articoli di taglio storico sul passato opaco del candidato all’inchiesta puntuale sui finanziamenti sottobanco dei russi che lubrificano l’amore per Vladimir Putin. Con particolare senso del martirio si è proclamato acerrimo difensore della libertà di stampa da tutte le minacce che escono dalla bocca di Trump, il candidato che insulta i cronisti “disgusting” e promette riforme per cambiare un sistema giudiziario che tende a proteggere oltremodo i giornalisti impenitenti e impuniti. Sempre strizzando l’occhio all’epica patinata del Watergate ha parafrasato la storica (e intraducibile) minaccia rivolta dal procuratore generale di Nixon a Katherine Graham: “I’m very willing to let any of my body parts go through a big fat wringer if need be”. E’ disposto al sacrificio ultimo pur di difendere la libertà, e si dà il caso che siano le parole offensive ed abrasive a dover essere maggiormente protette: “Le parole gentili non hanno bisogno di protezione”.

 

Se l’è presa con Peter Thiel, confondatore di PayPal e grande investitore del settore tech, che mosso dalla sete di vendetta ha foraggiato con decine di milioni di dollari una causa contro Gawker, il sito di gossip che dieci anni fa ha rivelato la sua omosessualità. Sotto i colpi di Thiel, Gawker ha dichiarato la bancarotta, e il meccanismo non è piaciuto affatto al nuovo Bezos, il paladino del libero pensiero, che ha sentenziato: “Quando vai in cerca di vendetta devi scavare due fosse, una per te stesso”. Non è che Gawker sia un propalatore di odio, una macchina dell’hate speech, è Thiel che è permaloso e vendicativo: “E’ davvero così che vuoi impiegare il tuo tempo? Come personaggio pubblico il modo migliore per proteggerti dalle parole che non ti piacciono è farti la pelle dura”, ha detto, lui che di pelle dura se ne intende. Che Thiel sia un sostenitore di Trump e un suo delegato alla convention repubblicana di Cleveland non è che una coincidenza. Bezos era noto per la sua natura celebrale e manageriale, per la capacità di analisi con cui ha trasformato uno store digitale in un impero impossibile da aggirare, per le ossessioni di riservatezza e la ritrosia all’esposizione, mentre ora emerge la sua anima focosa e barricadiera. Non fa prigionieri, Bezos.

 

Lui, naturalmente, nega di essere in una battaglia politica per interposto giornale, cita i soliti comandamenti dei fatti separati dalle opinioni e della redazione separata dall’editore, invita – sì, proprio così: invita – i giornalisti del Post a mettere sotto torchio Amazon come farebbero con qualunque altra azienda d’impatto globale, loro rispondono a tono, magari usando un’oncia in meno dello zelo che mettono nello scrutinare la Trump Organization. “Bene, perché è esattamente quello che avevo in mente di fare”, ha detto Baron, con una risposta che ricalca la scena cinematografica in cui risponde all’invito alla collaborazione del cardinale Bernard Francis Law con un laconico e cazzuto “preferiamo stare da soli”. Il capo, in genere, non risponde alle richieste d’intervista, nemmeno a quelle del suo giornale. Bezos, dicono al Post, non ha mai chiamato il direttore per un pezzo sgradito sulla sua azienda, anche se non ne sono stati pubblicati molti, a dire il vero.

 

Non interferisce con le decisioni editoriali, non dà indicazioni politiche, non impone la linea sui contenuti, non commissiona marchette e non indice campagne. Un editore da sogno, si dirà, di quelli che mettono i capitali, guardano i conti e per il resto non si fanno mai sentire. Ma non farsi sentire non è un tratto del modus operandi di Bezos, che ha cacciato, non senza destare qualche malumore, Katharine Weymouth, l’erede della famiglia Graham, dal ruolo di editore, e al suo posto ha messo Fred Ryan, ex presidente della Allbritton Communications. I discendenti della famiglia che ha dominato l’alta società washingtoniana per decenni si devono essere spesso chiesti come sarebbe andata se Don Graham avesse accettato, nel 2005, l’offerta di Mark Zuckerberg di rilevare Facebook, social network promettente ma forse troppo innovativo per l’assetto mentale da vecchia baronia. E’ finita, quasi un decennio più tardi, con un altro disruptor come podestà di quel vecchio impero in disarmo.

 

Ogni due settimane Bezos ha un incontro telefonico di quattro ore con i top manager del giornale, che un paio di volte l’anno vanno a  Seattle per riferire al proprietario sull’andamento degli affari. Talvolta si produce in eccentriche variazioni sul tema degli incontri di lavoro. E’ andato di persona, con il suo jet privato, in una base militare americana in Germania a riprendere Jason Rezaian, il cronista iraniano-americano del Post che ha passato diciotto mesi in una cella di Teheran con l’accusa di spionaggio. Sull’aereo gli ha chiesto dove volesse essere lasciato: “Ti porto dove vuoi”. “Perché non Key West?”, ha detto il giornalista. Così è stato. Uomo dall’intelligenza feconda e abituato all’arte del brainstorming, spesso Bezos non si limita alle osservazioni di carattere generale sull’azienda, ma propone soluzioni puntuali a problemi specifici. Shailesh Prakash, il capo tecnologico del Post, ovvero l’uomo incaricato di mettere in pratica la rivoluzione di Bezos, ha raccontato di un’idea lanciata dal boss per coinvolgere la community dei lettori con una specie di gioco. In pratica, il lettore avrebbe avuto la possibilità, dietro un micropagamento, di far scomparire tutte le vocali da un articolo che non era di suo gradimento; un altro lettore in disaccordo con il collega che aveva “devocalizzato” il pezzo avrebbe potuto, dietro un altro micropagamento, ripristinare le vocali e rendere di nuovo fruibile l’articolo. Nel viso di Baron e degli altri manager Bezos ha letto che si trattava di una stupidaggine colossale, ma vuole che l’aneddoto si racconti in giro per promuovere l’immagine del padrone perfettibile che ha idee stupide come tutti i mortali: “Lavorando con altre persone intelligenti di fronte a una lavagna bianca possono venire fuori un sacco di pessime idee”.  


Da quando ha comprato il Post, nel 2013, i visitatori unici mensili sono passati da 30,5 a 73,4 milioni, il giornale si è riaperto alla sua vocazione nazionale e globale dopo essersi ritirato giocoforza nella dimensione provinciale che caratterizza anche la capitale più importante del mondo, per fare concorrenza al modello dell’Huffington Post ha creato un aggregatore, la redazione e i collaboratori sfornano oltre cinquecento articoli al giorno, produzione più alta di quella del New York Times e BuzzFeed.
Uno studio del Shorenstein Center di Harvard sull’evoluzione del Post sotto l’egida di Bezos nota che il proprietario ha seguito scrupolosamente tutti i passi indicati in una fortunata analisi di Matthew Hindman per accrescere il traffico online: “Aumentare la velocità del sito e delle app sui device, mettere molta enfasi sul design di queste piattaforme digitali, sviluppare un sistema di raccomandazioni personalizzate, pubblicare più contenuti con aggiornamenti sempre più frequenti, provare continuamente titoli e impaginazioni diverse per uno stesso articolo, in modo da vedere cosa attrae maggiormente i lettori, puntare sul potenziamento dei social media, offrire molti contenuti multimediali, con una particolare attenzione ai video”.

 

La cura Bezos ha risollevato i conti in rosso del giornale? Non si sa, i numeri sono riservati, ma molto probabilmente questa fase di investimenti nell’immediato sta facendo soffrire la “bottom line”. Il fatto è che Bezos non ragiona mai nei termini dell’immediato. Brad Stone, autore della biografia non autorizzata “The Everything Store”, scrive che in carriera “ha perso soldi più spesso di quanto ne abbia fatti, e tutto questo è parte della sua strategia di lungo periodo”. A lungo Amazon si è sostenuta grazie alla fiducia degli investitori di Wall Street più che alla clientela. “Be patient” è uno dei principi fondamentali del bezosismo, filosofia della lentezza che si discosta dai dettami in stile “move fast” che dominano altre menti visionarie del mondo tecnologico. Il controllo totale che esercita sul Washington Post, azienda privata, gli consente di non essere sottoposto alle pressioni costanti degli azionisti che vogliono vedere i risultati, e apre spazi di libertà in cui gli osservatori si domandano: “Che cos’avrà in mente?”.  “Lord, don’t let me misunderstood”, cantava Nina Simone una vita fa, mentre Bezos ha eretto il fraintendimento a principio ispiratore e modello di business. “Fai in modo che gli altri ti fraintendano a lungo”, ripete spesso a se stesso e agli investitori.

 



Centro spedizioni Amazon (foto LaPresse)


 

Bezos è nato ad Albuquerque, nel New Mexico, figlio della giovanissima erede di una famiglia di scienziati e ingegneri che possedeva un centinaio di ettari di terreno in Texas, e di un maestro del monociclo di nome Ted Jorgensen, affermato saltimbanco che i giornali locali degli anni Sessanta immortalavano assieme alla sua crew, gli “Unicycle Wranglers”.
Il matrimonio fra il monociclista e l’ereditiera va in frantumi nel giro di pochissimo e Jacklyn, la madre, s’innamora di un immigrato cubano di nome Miguel Bezos che era arrivato negli Stati Uniti a quindici anni, da solo, in cerca di fortuna. E l’aveva trovata, la fortuna, diventando ingegnere per la Exxon a Houston, sposando una ragazza di buona famiglia e adottando legalmente il figlio di lei quando aveva quattro anni. Non è difficile afferrare l’antipatia viscerale di Bezos per il candidato che ha fatto del muro al confine con il Messico il simbolo dominante della sua campagna, uno che non perde occasione per bastonare le minoranze e infondere rabbia nei confronti degli ispanici. Bezos non ha mai cercato di ritrovare il suo padre biologico, dice che la sua figura gli viene in mente soltanto quando deve compilare la parte sulle patologie famigliari nei moduli medici, ma a localizzarlo è stato uno dei suoi biografi, che l’ha trovato dietro il banco del suo negozio di biciclette in un sobborgo di Phoenix. Forse ordina i pezzi di ricambio su Amazon.

 

E’ stato il nonno materno, ex funzionario dell’agenzia atomica americana, a scoprire e coltivare le inclinazioni da inventore di un ragazzino che si divertiva a smontare e assemblare, un piccolo ingegnere in fieri che si esaltava per componenti meccaniche e sistemi elettronici, un genio solitario che amava passare il tempo con le cose più che con le persone. Una delle prime costruzioni è stato un allarme per impedire ai suoi fratelli di violare lo spazio privato della sua cameretta. Il nonno una volta gli ha impartito un’importante lezione di vita: “Un giorno capirai che è più difficile essere gentile che intelligente”. Erano in macchina, la nonna sedeva sul sedile del passeggero e, come al solito, fumava. Per convincerla a smettere Jeff, che allora aveva dieci anni, le ha esposto i calcoli sugli anni di vita dei quali si stava privando per colpa del tabacco: “Se calcoliamo che sono due minuti in meno di vita ad ogni tiro, hai già perso nove anni”. Si aspettava che la nonna gli facesse i complimenti per l’esibizione di un quoziente intellettivo fuori dalla norma, ma la nonna è scoppiata a piangere.

 



Magazzino Amazon (foto LaPresse)


 

Bezos ha raccontato questo episodio, deprecando il cinismo dei suoi dieci anni, in un discorso ai laureati di Princeton, la sua università. In quel tipo di prolusione, tassello fondamentale della liturgia della vita pubblica americana, coloro che sono invitati a parlare solitamente elevano le emozioni al di sopra del freddo raziocinio, presentano i sentimenti come superiori al calcolo, elogiano la creatività e l’audacia come componenti determinanti della vita, a discapito della capacità di pianificare e capitalizzare il successo. Follia e talento, in questi discorsi, hanno la meglio su analisi ed efficienza. Steve Jobs davanti ai laureati dice “stay hungry, stay foolish”, non “fatevi venire un’idea e realizzatela sfruttando la manodopera a basso costo cinese per arricchirvi di più”. Allo stesso modo Bezos propone l’apologo edificante della nonna per spiegare che la gentilezza viene prima dell’intelligenza, omettendo però che l’impero di Amazon non è fondato sulla gentilezza. E’ fondato sulla competizione senza scrupoli, sulla manipolazione dei desideri, sull’ossessione per l’efficienza, il controllo dei prezzi e l’ottimizzazione dei processi su larga scala, pratiche che richiedono carichi di lavoro enormi, pressioni sui dipendenti e una cultura aziendale che fa leva sulla paura e incoraggia la delazione.

 

“Ci sono due tipi di aziende: quelle che vogliono far pagare di più e quelle che vogliono far pagare di meno. Noi siamo un’azienda del secondo tipo”, è un motto classico del patron dell’azienda, che ha fatto del servizio al cliente la religione aziendale. Nelle ricerche per il suo libro, per il quale Bezos ha rifiutato di farsi intervistare, Stone ha scoperto un memorandum intitolato Amazon-Love. E’ un’analisi delle ragioni per cui colossi mangiatutto come Google e Facebook non sono percepiti dai clienti come cattivi senza scrupoli, mentre la cosa certamente s’applica ad altre aziende, dalle odiate aziende petrolifere a Wal-Mart. Uno degli elementi fondamentali da tenere presente è che la gente detesta i grandi player che fagocitano quelli piccoli, mentre ama chi combatte contro suoi parigrado. Applicando il criterio ad Amazon, è chiaro che essere percepiti come l’azienda che ha messo sul lastrico migliaia di librerie indipendenti non è cool, ma presentarsi come il servizio che ha dato al singolo cliente il potere di ordinare e ricevere a casa tutto ciò che può immaginare in breve tempo e in modo affidabile conferisce l’aura della compagnia messianica. Il documento spiega le strategie che Amazon deve applicare per apparire un gigante buono, non un esperimento darwiniano dove i manager mettono sotto pressione i dipendenti per vedere qual è il loro punto di rottura e avvocati di cinque continenti lavorano giorno e notte per trovare la via che permette di aggirare gli scogli fiscali.

 

Una vigorosa inchiesta apparsa sul New York Times lo scorso anno descrive con abbondanza di particolari il clima che domina il lavoro nel quartier generale di Seattle. In particolare una sequenza ha fatto breccia nell’immaginario, quella degli impiegati che piangono. Uomini di mezz’età, giovani donne, stagisti, manager con esperienza e di medio livello: tutti a un certo punto scoppiano in lacrime, sopraffatti dai carichi di lavoro, dalle esigenze pressanti, da compiti impossibili e da una struttura aziendale fatta per agevolare un turnover costante. Nella liquida Amazon quando dicono che un dipendente è “solido” significa che sta per essere licenziato.

 



Interno di un magazzino di Amazon


 

Jay Carney, diventato capo della comunicazione di Amazon dopo essere stato il portavoce del leader del mondo libero, ha reagito all’articolo con un’irrituale smentita affidata a Medium, una controinchiesta tagliente e piena di dati per smontare a versione del Times, cosa che ha scatenato un’altrettanto irrituale botta e risposta con il direttore del quotidiano dei record, Dean Baquet. In controluce, ma nemmeno troppo, s’intravede la guerra fra il New York Times e il Washington Post, ravvivata dall’arrivo di Bezos dopo decenni di sostanziale non belligeranza, ché i due quotidiani giocavano sostanzialmente su campi separati. La smentita fondamentale riguardava, appunto, la questione dei pianti a dirotto, la più devastante in termini d’immagine, esattamente il contrario di ciò che Bezos predica nei suoi memo per far apparire l’azienda buona. La fonte che ha rivelato il dettaglio è un manager di nome Bo Olson, liquidato da Carney come un ex impiegato “la cui breve esperienza in azienda è finita dopo che un’inchiesta ha rivelato i suoi tentativi di truffare i fornitori e di nascondere le tracce falsificando i documenti”. Era un po’ come chiedere a una persona divorziata quattro volte un’opinione sul matrimonio e spacciare la risposta come l’opera di un imparziale esperto. I dettagli della disputa contano fino a un certo punto. Quello che conta è la foga, la rabbia, la disperata volontà di Amazon di contrattaccare, di mordere tutti quelli che vogliono rappresentare l’azienda che ha cambiato il mondo come una plantation tirata avanti da un’esercito di schiavi digitali. Amazon e Bezos devono diventare gentili, o almeno apparire tali, questa è la lezione di marketing che gli ha impartito la nonna.

 

Steve Jobs aveva il maglioncino nero a collo alto, Mark Zuckerberg ha la t-shirt grigia, Tim Cook la camicia fuori dai pantaloni. Bezos ha la risata. E’ un verso metallico che gli scoppia all’improvviso in faccia, sfigurandolo, come se lui stesso ne fosse colto di sorpresa. Non è, come si dice di solito, una risata contagiosa. Al contrario, dopo un primo moto d’ilarità subentra qualcosa di posticcio e repulsivo, forse addirittura di luciferino, in quell’innaturale verso “a metà fra un leone marino in amore e un trapano”, come ha scritto Stone. Su YouTube si trovano compilation delle risate televisive che sulle prime fanno sorridere, poi diventano estenuanti ripetizioni di suoni che, mixati con un ritmo incalzante e fatti andare ad libitum nelle orecchie di un detenuto, potrebbero costituire una violazione della Convenzione di Ginevra. E’ quello il suo tratto distintivo, la sua divisa.

 

Potrebbe sembrare un’esagerazione, ma molto della vita di Bezos è stato determinato dalla risata. La moglie MacKenzie si è innamorata di lui sentendo continuamente la sua risata attraverso i muri dell’ufficio. Erano i primi anni Novanta, entrambi si erano laureati a Princeton e lavoravano nell’hedge fund di David Shaw, una misteriosa boutique della tecnofinanza zeppa di geni. Ora lei scrive romanzi non indimenticabili, si occupa dei quattro figli e stronca i libri che dipingono il marito come un mostro; lui continua a ridere, e ha ottime ragioni per farlo. Quando era bambino, la risata gli costava i rimproveri continui dei fratelli, che non riuscivano a sentire le battute dei film, soverchiate dai fastidiosi decibel del piccolo Jeff. Si dice che un grande affare con eBay sia saltato perché i negoziatori dell’azienda sono stati innervositi dal rumoroso sganasciarsi del personaggio che assume le fattezze di un cartone animato.

 

“Sono una persona imbranata in molti sensi”, dice di se stesso, e quando ride si fatica a credere che dietro quell’imbranataggine estetica ci sia un multimiliardario che dentro l’azienda ha scelto di essere temuto e non amato, un “overachiever” che pretende dagli altri quanto pretende da se stesso. Significa che molto spesso, gli altri, stramazzano rovinosamente nel tentativo di stare al suo passo. Il genere umano deve congratularsi con Bezos per avergli dato un accesso facile a tutto-e-subito, deve temerlo per aver collegato con una struttura digitale inimmaginabile le nostre preferenze ai meccanismi di distribuzione – con risultati distopici – ma deve fargli statue equestri e archi di trionfo per essersi schierato nella battaglia contro le presentazioni in PowerPoint. Notoriamente, Bezos ha sostituito la classica pratica di business con la composizione di un testo cosiddetto “narrativo” che racconta in forma aperta e discorsiva ciò che il PowerPoint liofilizza in modo semplificato e schematico. All’inizio di ogni riunione i partecipanti passano la prima mezz’ora a leggere il testo preparato, dopodiché inizia la discussione. “PowerPoint non è uno strumento neutrale, ma è attivamente ostile a un ponderato processo decisionale. Ha cambiato profondamente la nostra cultura alterando le aspettative di chi prende le decisioni, il modo in cui le decisioni vengono prese e perché”, ha scritto l’ex manager di Amazon John Rossman in “The Amazon Way: 14 Leadership Principles Behind the World's Most Disruptive Company”.

 


Il fotografo David Levene è andato dietro le quinte della centrale di distribuzione di amazon Uk


 

L’idea è che la presentazione in PowerPoint valorizzi i concetti intesi come monadi autosufficienti a discapito dei nessi logici, delle proporzioni, dei rapporti fra le parti. Quando, oltre dieci anni fa, Bezos ha imposto l’eliminazione della presentazione in stile PowerPoint sono stati in molti a inferocirsi ed esigere spiegazioni. Lui, noto per l’informalità con cui gestisce la comunicazione interna, ha spiegato apertamente: “La ragione per cui scrivere un documento di quattro pagine è più difficile di ‘scrivere’ un PowerPoint di venti pagine è perché la struttura narrativa costringe a pensare meglio e a capire meglio cosa è più importante, e come le varie parti sono in relazione. Le presentazioni in stile PowerPoint permettono di sorvolare le idee, appiattire l’importanza relative delle cose e ignorare la connessione fra le idee”. La dittatura della presentazione ultrasemplificata e astratta ha soggiogato qualunque ambito dell’esistenza, dall’educazione all’esercito. Quando era a capo della coalizione militare in Afghanistan, il generale Stanley McChrystal si è trovato di fronte a un indecifrabile groviglio di nomi e frecce che nelle intenzioni doveva descrivere i rapporti fra i vari componenti dello scenario afghano. “Quando riusciremo a decifrare questa slide – ha detto il generale sorridendo – avremo vinto la guerra”. Bezos ha vinto la sua guerra.

 

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Bezos non è Amazon. In un ideale diagramma di Venn i due insiemi si intersecano, ma non coincidono. Attraverso la sua Bezos Expeditions, il portafoglio finanziario personale, ha investito in più o meno qualunque settore nello spettro della tecnologia e dei servizi: Google, Uber, Airbnb, Twitter; ha un piede nell’educazione online con General Assembly, uno nella fusione nucleare con General Fusion, si occupa come azionista di robotica e videogiochi, volontariato e computazione quantistica.

 

Il suo interesse principale al di fuori di Amazon sono le missioni nello spazio, praticamente un cliché fra i pesi massimi della tecnologia che da bambini divoravano fantascienza e oggi vogliono imprese di proporzioni interstellari. Aveva cinque anni quando ha visto l’Apollo 11 partire, un momento che ha dato “un grande contributo alla mia passione per la scienza, l’ingegneria e l’esplorazione”. Da anni va avanti una competizione, talvolta amichevole e cavalleresca, altre volte acida e adolescenziale, con Elon Musk e la sua SpaceX, nell’ancestrale gara a chi ha il razzo più lungo. Su Twitter, che usa pochissimo, Bezos cinguetta quasi esclusivamente di missioni spaziali, inviando alle volte complimenti al competitor di origini sudafricane in cui è lecito leggere fra le righe qualche segno di malizia.

 


Il razzo di Bezos atterra con successo, dopo il volo nello spazio (foto LaPresse)


La Blue Origin di Bezos fino ad ora non ha avuto le dimensioni e le capacità per competere con il gigante di Musk, ma giusto qualche giorno fa ha annunciato la costruzione di un impianto da 70 mila metri quadrati in Florida per testare razzi di dimensioni sufficienti per raggiungere l’orbita e agganciarsi alla stazione spaziale internazionale. In una mail ai manager, ha scritto: “E’ emozionante vedere i bulldozer in azione, stiamo preparando il terreno per la costruzione di una flotta di veicoli riutilizzabili che saranno lanciati e atterreranno, ancora e poi ancora”. Con questo sviluppo, Blue Origin si muove dalla dimensione suborbitale all’orbita dei grandi player aerospaziali, mette le basi per competere finalmente con Space X, guidato da un motto che Bezos si è fatto incidere sugli stivali da cowboy che spesso indossa per rivendicare la sua identità southern: “Gradatim ferociter”, gradualmente e con ferocia. E’ la più bezosiana delle massime, ché il capo di Amazon  è un talento più incrementale che generativo, un incredibile sistematizzatore più che un creativo puro. Non fa rivoluzioni nel giro di un eureka, ma prende tempo, persegue un’idea, la affina, si dà ancora tempo e non s’affretta quando non è necessario: fa tutto gradualmente ma con ferocia. Se non fosse un gradualista che accetta di avere margini risibili sui prodotti che smercia pur di ottenere la gestione di quantità favolose di merce, probabilmente Amazon non esisterebbe nemmeno. Di certo non avrebbe mai superato, in termini di valore di mercato, Wal-Mart, l’enorme catena che in America è sinonimo di retail. Amazon vale quasi 250 miliardi di dollari, i profitti sono in vertiginosa ascesa, lui sta insidiando nella classifica degli uomini più ricchi del mondo il suo idolo, Warren Buffett. Con lo stesso spirito paziente ha integrato nel tempo gli infiniti strati e livelli di cui è composta la selva amazzonica del suo business, nella convinzione che “vincere un Golden Globe per la produzione di una serie televisiva ci fa vendere più scarpe”. Tutto è corroborato dai dati.

 

Altro motto: “Di Dio ci fidiamo, tutti gli altri devono presentare dati”. Questa impostazione lo distingue da Musk anche per quanto riguarda gli scopi e le ambizioni dei loro progetti spaziali paralleli. Lo scopo finale di Musk è colonizzare Marte, mentre Bezos, leibniziano, è convinto che “la Terra sia il migliore pianeta” e dunque vuole andare nello spazio per delocalizzare le attività che affaticano il mondo più bello che c’è: “Tutta l’industria pesante sarà spostata fuori dalla Terra. Il mondo sarà soltanto residenziale e per l’industria leggera”.